…a casa loro

Aiutiamoli a casa loro”, questa frase fa problema perché nasconde ipocrisia e autoassoluzione. Non serve una laurea in cooperazione per accorgersi della differenza tra progetti di “emergenza” e quelli di “sviluppo”. L’emergenza piace particolarmente, soprattutto sotto Natale. Risponde al bisogno di sentirsi utili e buoni, e anche di sapere che c’è qualcuno più sfigato di noi. È quella che muove rapidamente quantità di fondi da “Nord verso Sud” per poi a Nord tornare. Lo sviluppo assomiglia maggiormente a quel “aiutiamoli a casa loro” che a volte si trasforma in “aiutateli a casa loro”, delegando ad altri un impegno che tocca a noi. Purtroppo spessissimo, anche in questo caso, i fondi vanno da Nord a Sud per poi tornare da dove sono arrivati. Comunque “aiutiamoli a casa loro”. Quando si pronuncia questa frase, che “usciamo” a ogni discussione trasversale, dalla sciura Maria al mercato rionale, ai dibattiti pseudopolitici al bar o in parlamento, stiamo parlando strettamente di sviluppo e non d’emergenza, ma qui incontriamo la contraddizione dell’umana esistenza. Se capita uno Tsunami, (emergenza), spruzziamo sms carichi di euro, perché in fondo ci piace agire di pancia. Non importa saperne l’utilizzo, conta rispondere al bisogno di utilità sociale a basso coinvolgimento. Se invece, è proposto il finanziamento di una caffetteria, gelateria e ristorante in una capitale africana come Lusaka (sviluppo), non solo non doniamo, ma critichiamo pure: “…ma con tutti i problemi che c’hanno, guarda te se devo dare i soldi al primo pistola che se ne esce con l’idea di aprire un ristorante in Zambia!”. Gli stereotipi nascosti dentro le nostre coscienze sedate, si annidano proprio dove non vogliamo fare pulizia, perché in fondo, l’Africa è l’Africa, e cosa ci fa una pasticceria laggiù? Mica è Milano. Sì, perché nel nostro immaginario, nello Zambia non è il 2017 e non ha diritto a gelaterie, ristoranti, cinema, fast-food, discoteche, pub, pizzerie, internet, smatphone,… no, quella è “casa nostra”. In Africa fa caldo, si va a piedi nudi, non c’è l’acqua, si muore di fame, hanno il ritmo nel sangue, non hanno niente però sorridono, i leoni ti mangiano e i serpenti ti mordono, le stelle si possono toccare, ci sono tramonti indimenticabili e credono ancora negli stregoni. Questa è l’Africa che vogliamo, “la mia Africa”, poi c’è la tua, la sua e quella di quell’altro ancora. Resta esclusa l’Africa per com’è, come quell’Italia intrappolata tra spaghetti, pizza, mandolino, mafia e “volemocebbene”. Mettiamocela via, perché lo sviluppo è esattamente quel “aiutiamoli a casa loro” che va tanto di moda quando parliamo di immigrati in Italia. Una pasticceria in Zambia crea posti di lavoro, offre formazione professionale perché s’impara un mestiere, nel nostro caso genera fondi per sostenere l’associazione senza dipendere continuamente da donazioni, da valore aggiunto alla città in cui è avviata l’attività, e soprattutto aiuta la gente a non emigrare per una vita migliore.  Nella frase “aiutiamoli a casa loro” c’è un errore di valutazione che ci esclude dalla vicenda. Illusione ottica! Casa loro è quella devastata dall’economia globale, che tra l’altro tiene in bilico anche casa nostra, e di conseguenza il fiume umano attraversa il mare per cercare una pasticceria, una gelateria o un ristorante in cui lavorare, imparare un mestiere e avere uno stipendio. Non essendocene abbastanza per assumerli tutti, la maggior parte resta per   facendo tutto quello che faremmo anche noi per sopravvivere, e poiché quel tutto genera insicurezza sociale e degrado, diventa problema che ci coinvolge.Ci siamo in mezzo. Sarebbe più corretto dire: “aiutiamoci a casa loro”.  Oggi, a distanza di un anno, abbiamo ancora il coraggio di chiedervi una mano per implementare LA BOTTEGA, la nostra caffetteria, ristorante e pasticceria italiana a Lusaka, per offrire ancora più posti di lavoro (attualmente abbiamo assunto 10 persone), offrire formazione professionale, generare fondi per sostenere la In&out of the Ghetto e aggiungere del bello alla città. Abbiamo il sogno di ampliare i nostri servizi, aggiungendo la pizzeria con forno a legna e gelateria, che sommati alla caffetteria, pasticceria e ristorante renderebbe più completa la gamma di prodotti artigianali italiani da offrire alla clientela. Tutto questo è sviluppo e ha un fine unico: aiutarci a casa loro.

per aiutarci: http://www.inandoutoftheghetto.org/italia/dona/

causale La Bottega

Grazieeeeeeeee!!!!

L’indifendibile

La questione del crocifisso e del Natale sembra essere la solita guerra dei confusi. Chi attacca ha idee confuse, e chi lo difende pure. Dobbiamo avere sempre una verità da difendere. Qualcuno ci ha insegnato che non si possiede la verità bensì, si è verità, ma non essendo, ce ne dobbiamo creare una da possedere e da difendere. Abbiamo due fazioni, come i guelfi e ghibellini, ma gli opposti si attraggono, stanno sempre insieme come calamite. In una discussione, la presidentessa degli atei Italiani, si accaniva contro il crocefisso nei luoghi pubblici, e specialmente nelle scuole. Posizione chiara: “il crocefisso va tolto, punto!”. Le idee di chi prende posizioni chiare sono spesso confuse. Nel dibattito c’era anche un noto critico, che non stimo particolarmente, ma in quell’occasione diede un contributo interessante. Pose una domanda alla signora: “lei sa chi è Vittorino da Feltre?”  Una domanda che a molti è sembrata fuori luogo o un’ostentazione di cultura tipica del personaggio che interpreta. La signora senza Dio si trovò spiazzata, anche perché ignorava chi fosse l’uomo misterioso. Dopo la sua tacita ammissione, come da copione, si prese anche della “capra ignorante”. Vittorino da Feltre, era un educatore umanista con spirito cristiano. La messa e la preghiera erano aspetti fondanti del suo approccio pedagogico. A lui sono state intitolate scuole in Italia e quelli che s’indignano per la religiosità delle istituzioni pubbliche, dimenticano che i loro nomi sono implicati inesorabilmente con la religione stessa. Portano il seme delle cristianità nel nome scelto per onorare figure, che sono più di un simbolo attaccato a un muro. Sono nomi che testimoniano un credo. Vittorino da Feltre, e altri personaggi ai quali sono state dedicate scuole, sono segni della religiosità che vogliono rimuovere. Perché fermarsi al simbolo e non andare oltre, rimuovendo un nome portatore di un’impronta cristiana? Si toglie la croce, ma si commemora ogni giorno chi ne ha fatto uno stile educativo. A cosa si ribellano gli oppositori? L’ateo non crede e non si dovrebbe porre il problema di Dio. Se è vero che non esiste, non dovrebbe perdere tempo inutilmente per concentrarsi su problemi reali. Chi è contro, non lo è per ateismo, ma per altri motivi. Chi lo fa per appartenenza ad altri culti e religioni, in realtà molto pochi, dovrebbe spiegare il motivo dell’accanimento sul simbolo e non sul nome dell’istituto, o sulla rimozione di statue e dipinti religiosi sparsi nelle strade e piazze delle città italiane. In Italia si è cresciuti giocando a pallone sotto la statua di qualche santo, e mi auguro si possa ancora farlo. Per non parlare di chi invece lo fa in nome della laicità dello stato. Non sono piuttosto i privilegi al clero e chiese varie a dover essere rimossi piuttosto di un crocefisso? Ci s’indigna per una croce nella scuola pubblica e non lo si fa quando le tagliano i finanziamenti per darli a scuole private, molte delle quali gestite da religiosi. Allora, di che laicità stiamo parlando? Passiamo al Natale. Si vogliono cancellare tracce di bellezza lasciateci in dono, per il solo scopo di vincere. Il Natale non va festeggiato pubblicamente! Ma davvero chi vuole abolirlo non lo festeggia? Non un regalo, non un pranzo o una cena diversi dal solito, non una fetta di panettone o di pandoro? Chi è contro cambia canale quando vede un film di Natale, cambia stazione radio quando passano una canzone a tema, boicotta i mercatini, si rifiuta di fare le ferie imposte dalla festività? E davvero chi è a favore, che si accanisce nel difendere sia il crocefisso che il Natale, accettano questi simboli e tradizioni per trasformare la propria vita? Davvero chi lo difende si accorgerebbe della rimozione silenziosa di un crocefisso in un luogo pubblico? Quanti se ne accorgerebbero se sparisse in sordina dal muro di una classe o un ufficio? Davvero chi lo difende, lo difende davvero? È qui l’assurdità, il paradosso; difendere Dio. Se esiste un modo di farlo, credo sia solo attraverso la difesa dei diritti dell’essere umano. Il resto è difesa di se stessi e della propria verità. Chi difende statuette di gesso e disprezza persone vere, acquisisce di diritto il titolo di fariseo, considerati dall’uomo rappresentato dalla statuetta più piccola della natività, un ipocrita, ovvero un simulatore di atteggiamenti e sentimenti esemplari che purtroppo non sa coltivare. Difendere, è un verbo non applicabile alla divinità, al trascendente. I quattro vangeli riportano un tentativo di difesa, finito con un orecchio tagliato e risanato all’istante e un ammonimento: metti giù la spada! La vicenda del Natale non è una storia di difesa, ma di esposizione, di guardia abbassata, di un Dio scoperto e vulnerabile. È il Dio all’aperto, che sta sotto le stelle e non dietro muri di fortino. È una storia di bellezza indifesa, straordinariamente immischiata al pericolo, dal rischio di una nascita lontana, ad una morte pubblica e violenta. Non c’è traccia di difesa, non c’è posto per gli avvocati di Dio nella narrazione della buona e nuova notizia. Il Natale racconta l’inizio di questa antica storia, in cui l’umano si affaccia per ritrovare se stesso, per riscoprire la sua caratteristica più divina: la sua umanità. Che sia Natale di braccia abbassate e testa alta, non per orgoglio, non tanto per guardare il cielo, ma per vedere e riconoscere ancora l’uomo e la sua bellezza, che è goccia di un Dio indifeso e indifendibile.

Buon Natale

Tre

Ho messo molta cura nella ristrutturazione della casa. Sebbene non fosse la mia e non l’avrei mai vissuta, ne curavo ogni minimo particolare. Cercavo di dare all’abitabilità la dignità dovuta. Devo compiere uno sforzo grande per credere che tre bambini sono morti asfissiati in quella stessa casa che serviva per farmi campare. Era bella e nella mia fantasia abitavano ancora molti progetti per rendere migliore quel fazzoletto di compound. La bellezza salverà il mondo, ma non è stata sufficiente a salvare tre vite ancora verdi. Una sola è riuscita ad evadere la sentenza di morte pronunciata dalla non curanza dei genitori. Presi dal lavoro, spingendo fino al limite, hanno trovato l’infelicità. A volte la ricerca estrema della felicità porta dove lei non ha mai abitato. Bloccati a chiave in casa, con lucchetti alle griglie della porta. Il più grande dei quattro è di sette anni. Chiusi in casa per proteggerli da qualcosa che fuori poteva fagli male, ma questa volta il bene era rimasto chiuso fuori e il male dentro. Chiudersi non vuol dire salvarsi. Il padre e la madre erano fuori per lavoro fino a notte tarda. Il fuoco reso minimo dalla fiamma di una candela di luce che sa di casa, complice di amanti seduti ad un tavolo, compagnia di santi in chiesa. Fiamma come preghiera da non pronunciare, pronta a diventare un mostro che cancella tutto. Era lì, vicino al letto, per sostituire il calore di una presenza. Quella candela più che presenza, era simbolo di un’assenza. Sarebbe bastato il respiro della madre per spegnere quella fiammella, ma non c’era. Il fuoco mente, e si nutre di disattenzione. È così che cresce. Nel buio di una notte di periferia ai sogni sono state bruciate le ali, e quando tentarono di camminare via, un fumo nero gli rubava il fiato. Fuori spingeva l’affanno di braccia per aprire quello che era stato pensato per proteggere. Grida bagnate di saliva, accompagnavano lo sforzo che taglia le mani su ferro, mentre una folla con ringhi tra i denti s’attorcigliava attorno alla tragedia. Tra i quattro, una bambina è riuscita a volare più in alto e passare tra le dita fredde delle sbarre della finestra. Acqua sparsa, fuoco, sudore che gronda di gocce nere dalla fronte, occhi che bruciano di un rosso che si confonde col colore di un sangue mai stato sparso. La morte ha avuto rispetto e ha lasciato i bimbi appoggiati come se dormissero, con le gole chiuse da un fumo denso come schiuma. È la bellezza della fiamma di una candela che bruciava di confidenza distratta, ad aver portato l’inferno, dove il paradiso sembra già molto lontano. Ai genitori non resta molto, concentrati su ciò che non era essenziale, una fiamma su cera bianca si prese ciò che lo era. Resta una casa bruciata, una famiglia mutilata e una folla attorno a tre bare lunghe poco più di un banco di scuola. Mentre si scava per tre volte, i polmoni degli uomini presenti al funerale buttavano fuori note pesanti, come sassi tirati senza forza e pensavo, con l’odore di lacrime nascoste nel naso. Pensavo che in quella stessa ora di pomeriggio, quarantadue anni fa, davo i miei primi respiri ad una aria che sapeva di riso tagliato. Era il mio compleanno. Erano le tre e un quarto di un venticinque settembre come quello, solo l’odore era diverso. In quel momento ricordavo con memoria d’altri di nascere, mentre vedevo chiudere nella terra tre biografie appena cominciate. La penna era restata li, di fianco a un letto vuoto, dove una candela bruciava per l’assenza di un respiro. Per un motivo che non conosco, mi è dato di aver ancora inchiostro tra le mani e qualche foglio da imbrattare. Vale la pena che continui a scrivere di mio pugno ciò che altri non potrebbero fare; la mia vita.

 

La Pasqua dei molti

È una Pasqua vista da fuori, senza celebrazioni in chiesa o preparazioni speciali.

Oggi è la domenica delle palme di una settimana solcata dalla quotidianità della vita in periferia, quella poco abituata a stare al centro.

Mi ricordo quando preparavo queste settimane con la concentrazione di chi deve fare un salto per batterne un altro.

Sembra quasi una Pasqua rinunciata, vissuta “meno”, ma in realtà è la Pasqua dei molti. È la festa che arriva senza far troppo chiasso, quella che ha un sapore diverso, meno di cioccolato e più di pane. È la Pasqua dei tanti, e io mi ci metto in fila, per scoprirne l’effetto carico di senso intrinseco da sfiorare. L’aspetto non religioso di un giorno lontano che si coglie nella frenesia d’inseguire qualcos’altro, la propria ordinarietà, la quotidianità fatta di preoccupazioni e di un “anche oggi è fatta”.

È la Pasqua della preghiera quando fuori è buio e il rumore si spegne con il sole. È quella del dialogo nella stanza del segreto. È necessità di pensare cosa sia davvero “ritornare in vita”. Sono pensieri talmente lontani dalla teoria, dalla dottrina e dalla logica, che hanno bisogno di riservatezza per non arrossire. È un affare intimo tra la coscienza e la mente.

Sono lontane le preghiere popolari, le processioni di voci che s’infilano nelle pieghe del tempo che screpola i muri. È una Quaresima senza stazioni, qui il bus non si ferma e l’Artigiano di Nazareth non cade tre volte, perché ci pensa già la gente a farlo, tre, quattro, cinque, cento volte. Qui non ci sono strade asfaltate e tutte le vie sono quelle della croce. È la gente a portarne il peso. Una croce creata da quella mano, non più invisibile, che decide ricchezza e povertà. Le stazioni non sono appese ai muri, ma inchiodate nei giorni di Mercy, Isach, Nelia e Chikondiwe. È la loro schiena a bruciare, la loro fronte a sudare, la loro faccia a essere derisa e la loro gola a bere aceto. È sulle loro famiglie che si tirano i dadi, sono i loro respiri a essere spartiti e i loro sogni ad essere stracciati. È la loro bocca a smorzare tra i denti l’ennesimo “perché mi hai abbandonato?!”. Sono i loro soffi a essere esalati dal basso della terra, l’unico momento della vita in cui la croce si sposta dalle loro spalle per passare in eredità ai discendenti, come un testimone di una staffetta che nessuno vuole correre.

Sono loro a riempire tombe nuove, con pietre che, dopo tre giorni rimangono dove sono, senza rotolare via come duemila anni fa. Dov’è la resurrezione? Ci sono persone che non vivono nemmeno nella memoria, se ne vanno e basta. Scompaiono per sempre e nessuno le ricorda.

Ci sono persone in fila per cambiare la loro vita con qualcosa di diverso,

quella di prima, non l’hanno potuta godere.

Scritture antiche parlano di una resurrezione dai morti, di una “vita nuova”.

Dove e come? Ecco la domanda da cercare come moneta dimenticata in fondo alle tasche di vecchi jeans. Dopo averla trovata, bisogna decidere che cosa farne.

È la Pasqua della gente comune, quella che nonostante tutto, nel loro impegno a campare, nel silenzio del segreto, ci crede ancora a una vita che non si ferma con la morte… e questo è già un miracolo.

 

Buona Pasqua da Bauleni

 

Imitazione vs Somiglianza: 0-1

L’imitazione ha in sé una radice negativa, quella dell’assenza di originalità.

È una contraffazione, una di falsità.

La merce, imitata, contraffatta, è la copia, spesso scadente, dell’originale.

L’imitazione, è una brutta copia. Non è originale e manca di qualità.

L’imitazione poi, è utilizzata per far divertire. L’imitazione fa ridere. È la spogliazione della propria originalità per indossare idealmente quella di qualcun altro. Alcuni sono consapevoli di far ridere, e sono i comici, gli imitatori, altri invece non lo sanno, e sono quelli che non hanno il coraggio di credere della propria bellezza. C’è chi, per aurea di presunta santità, vorrebbe imitare persino Dio. Un frammento di medioevo, insediato negli anfratti più bui della coscienza umana. Una divina falsità per una tragicomica disumanizzazione.

Le parole sono importanti e gravide di significato. La parola usata accompagna, porta o trascina ad un’azione. Imitare porta a una rinuncia; la rinuncia di sé.

Diverso è il concetto di “somiglianza” che dovrebbe essere più vicino al rapporto Dio-uomo. La somiglianza non è qualcosa di artificiale come l’imitazione, non c’è lo sforzo di fondo, si somiglia per natura.

C’è una teologia antica, ma ancora presente oggi, che incoraggia l’utilizzo della pratica dell’imitazione del Falegname di Nazareth. C’è anche un libretto che s’intitola; “Imitazione di Cristo”. Se penso, per dover religioso, di dover imitare il Qualcuno galileo, allora è finito immediatamente il mio cammino di liberazione personale. Metto la parola fine alla scrittura della mia autobiografia, unica, intima e irripetibile. Se invece credo nella somiglianza per natura tra Dio e uomo, allora vivo la mia unicità e la vita stessa, con un senso di gratitudine che mi spinge solamente a essere il meglio di ciò che sono.

L’imitazione nasce dal non vero, dalla menzogna, qualsiasi cosa si voglia imitare, che sia una borsa, un atteggiamento, un eroe, e persino un Dio. L’imitazione imprigiona l’unicità, aliena la persona rendendola ridicola e la brutta copia di se stessa, la somiglianza libera le persone ridandole dignità nella loro irripetibile unicità, spingendole ad essere il meglio di ciò sono.

Semplicemente

L’essere umano si rifugia nel falso bisogno di seguire un eroe, un’icona, un santo. È rassicurante, perché si sente protetto, perché pronto ad intervenire in ogni momento di pericolo. L’uomo lo segue, camminando sulle sue orme. Percorre strade già calpestate da altri, escludendosi dalla novità per senso di sicurezza. È un baratto svantaggioso, alla fine “conviene” se la paura è la sola cosa da evitare. Quell’Artigiano di Nazareth ha detto con i suoi pochi anni di vita, che non servono super eroi per proteggerci, né santi da seguire né dei da temere. La grandezza di questa novità sta nel non dover imitare nessuno, nemmeno Dio. Gesù di Nazareth non va imitato e non va seguito come fosse un’icona, ma suggerisce di seguire ciò che noi stessi siamo. Penso a quanto è triste passare una vita elogiando gesta di altri, confondendoci con loro. È una vita di riflesso, accontentarsi di ciò che gli altri fanno rinunciando a essere la fonte della nostra felicità. Seguire un santone, un mentore, un eroe è la rinuncia alla nostra opportunità di umanizzazione. È puro ammutinamento della nostra bellezza, e della meraviglia che siamo, un rifiuto alla nostra unicità ed essenza. Immancabilmente, ci saranno persone che rispettiamo, di cui riconosciamo la sfrontatezza di aver sognato, di aver avuto il coraggio e l’umiltà di seguire ciò che li abitava veramente. Bisogna essere umili per essere semplicemente ciò che siamo. Che questo Natale porti il coraggio di credere nella nostra unicità.

Buon Natale

L’eroe e il prigioniero

Interrogato dai farisei: «Quando verrà il regno di Dio?», rispose: 
«Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!». 
Disse ancora ai discepoli: «Verrà un tempo in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete. 
Vi diranno: Eccolo là, o: eccolo qua; non andateci, non seguiteli. 
Perché come il lampo, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno. 
Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga ripudiato da questa generazione. Lc 17, 20-25

È triste realizzare che ciò che stiamo aspettando non arriverà mai, ma è ancora più triste non rendersi conto che ciò che attendiamo è già arrivato.

I farisei aspettano una “roba” che c’è già, ne sono profondamente immersi,

ma non la riconoscono, perché aspettano la loro idea, l’idealizzazione,

e non la cosa in se.

 

Mi ricordo di un racconto di mia mamma, quelli che senti tante volte. Lei aspettava di vedere per la prima volta suo papà. Non l’aveva mai visto, perché era partito per la guerra quando lei era nata. A quel tempo, era prigioniero in Russia. Lo zio di mia madre, vedendo che alla bambina mancava tanto il papà, le raccontava di lui, dicendo che era un brav’uomo e ne parlava molto bene, così, nella mente bambina di mia mamma andava formandosi l’immagine del suo papà ideale. Si aspettava di vedere un uomo alto, forte e muscoloso, bello e invincibile.

Tutti i bambini attraversano una fase in cui vedono il loro papà come un eroe.

La guerra finì, e mio nonno si mise in viaggio, a piedi, dalla Russia all’Italia, con il corpo di un sopravvissuto e lo sguardo pieno di chi non c’era più.

L’attesa di mia mamma saliva alle stelle, voleva vedere il suo eroe, bello, alto e forte. L’incontro fu una delusione, quasi un rifiuto. Al posto dell’idea si era presentato sulla porta di casa, un prigioniero, straniero ai suoi figli.

Era magro, provato dalla follia umana, dal lavoro, dalla fame e dal cammino.

Un uomo imbruttito dalla guerra, più vecchio della sua età, senza muscoli e con qualche capello bianco. “E questo sarebbe mio papà?!”

Sì, quello era l’eroe che stava aspettando con ansia, e che non riconosceva.

Ci mise un po’ per realizzare che gli eroi, i grandi uomini non si misurano con i muscoli, la bellezza e l’altezza, ma con il cuore, con il livello di umanità maturata. Quello era il suo grande uomo, suo papà.

 

Così è, per tutti quelli che vivono aspettando il loro eden, l’idea e non la realtà, e non si accorgono che è tutto già li, a portata di mano.

Sì, perché il cielo in terra è come un uomo buono, magro, non bellissimo, con mani spigolose, con la faccia sfregiata dal sole, dal freddo e dal tempo, e con una coscienza piena di vita.

Il regno dei cieli è come un uomo prigioniero tornato a piedi dalla guerra.

Il Viaggio

E avvenne (che) mentre andava a Gerusalemme,

egli passava attraverso la Samaria e la Galilea.

Ed entrando egli in un villaggio,

gli vennero incontro dieci uomini lebbrosi, che si fermarono a distanza;

ed essi alzarono la voce dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!».

E avendo(li) visti disse loro: «Essendo partiti, mostratevi ai sacerdoti».

E avvenne che mentre essi andavano, furono mondati.

Ora, uno di loro vedendo che era stato guarito, tornò indietro glorificando Dio a gran voce; 
e cadde sulla faccia presso i suoi piedi, ringraziandolo.

E quello era un Samaritano. 


Ora, prendendo la parola Gesù disse:

«Non sono stati mondati (tutti) i dieci? Ma gli (altri) nove dove (sono)? 


Non sono stati trovati (altri) che, tornati,

dessero gloria a Dio, se non questo straniero?».

E disse a lui: 
« Levandoti va’; la tua fede ti ha salvato!».  Lc 17, 11-19

 

Forse la condizione di straniero è privilegiata. In questo stralcio di racconto che sa di sabbia, è solamente uno straniero che ha compiuto un gesto straordinariamente semplice e umano.

È la sperimentazione della gratitudine.

Forse lo straniero, nel corso della sua vita non facile, dalla sua esperienza da perenne precario, incerto, a volte escluso, nella sua solitudine e malinconia, ha sviluppato una sensibilità diversa da chi, straniero non lo è mai stato.

Solo chi è lontano da tutto ciò che gli somiglia, apprezza il poco e riconosce il molto.  I lebbrosi sono dieci, nove autoctoni, e uno straniero, quello che ritorna.

Hanno tutti una malattia, e questa li accomuna.

Tutti gli uomini sono feriti, è questo che ci rende simili.

Tutti vogliono guarire e alzano la voce per spaventare il loro male.

Ciò che viene prescritto come medicina dal Ragazzo di Nazareth è; “movimento”.

Ti prescrivo il viaggio.

Si guarisce in movimento, non stando fermi, per questo lo straniero è agevolato. Ora si accorge che il suo emigrare non è la malattia, bensì la cura.

Tutti si mettono in viaggio, dentro e fuori, e il miracolo avviene.

A volte per guarire dentro devi attraversare il mondo, un viaggio che porta da Moncucco a Bauleni. Due posti che conosci solo se vuoi veramente andarci.

Il viaggio è terapeutico perché ti fornisce tutti gli strumenti per guarire.

Si può guarire solo a metà, come i nove che hanno ricevuto un beneficio con riserva. Manca ancora un chilometro. A volte, convinti che la meta sia troppo lontana, ci si ferma a tre passi dall’arrivo, eppure mancava così poco!

Lo straniero, abituato a terre non sue, sa che l’arrivo si raggiunge sempre dopo il punto in cui ci si vorrebbe sedere. Sa tornare sui suoi passi perché non ha paura di perdere tempo. Torna per gratitudine e non per malinconia.

Lo straniero ha negli occhi un orizzonte di speranza che molti hanno abbandonato per strada. Sono il viaggio e la speranza che l’hanno guarito:

levandoti, va, la tua speranza ti ha salvato!

Madre

Il piccolo ufficio della In & Out of the Ghetto è quanto di più polivalente io abbia mai visto: è ufficio, magazzino, laboratorio, sala riunioni, aula e all’occorrenza ambulatorio medico; il tutto in meno di 20 metri quadrati.

Lunedì pomeriggio tra i miei studenti d’italiano pressati sulla panca di paglia intrecciata, c’era una ragazza nuova con il suo bambino di cinque mesi. Seduta composta con il piccolo avvolto nel “chitenge”* ascoltava in silenzio una lingua che non è la sua e attendeva con pazienza l’arrivo del medico ortopedico per il bimbo nato con una malformazione ai piedi che causa seri problemi di deambulazione ma che fortunatamente può essere corretta. Era arrivata a piedi con il fagotto in spalla dall’altra parte del compound.

Il piccolo era già stato in cura presso il Beit Cure, un ospedale pediatrico di fondazione inglese specializzato in ortopedia e neurologia che opera a Lusaka e con cui la In & Out of the Ghetto ha stabilito una partnership che permette ai bambini del compound con disabilità fisiche e neurologiche di avere accesso gratuito a visite specialistiche, interventi e cure mediche. Il bimbo era già stato seguito dallo stesso medico che la madre ora attendeva, il quale, in seguito ad un ricovero con l’applicazione di gesso, aveva prescritto una cura di mantenimento attraverso un apparecchio tutore da applicare ai piedini. Quella che la madre attendeva era la prima visita dopo due settimane dalla rimozione del gesso e dalla dimissione dall’ospedale.

All’arrivo del medico la lezione d’italiano era finita, gli studenti avevano preso la loro strada verso casa e faceva già buio. In ufficio ad attenderlo oltre alla madre e al figlio, c’eravamo io, Diego e Bertha, uno dei soci fondatori dell’organizzazione che coordina il lavoro dei “Ghetto Angels” un gruppo di volontari che ogni settimana scandaglia il territorio alla ricerca delle persone più vulnerabili e presta loro cure, supporto ed assistenza a domicilio.

Il medico inizia la visita e si fa severo: il piccolo non indossava il tutore e probabilmente non lo aveva indossato nemmeno nei giorni precedenti. La madre aveva dimenticato o non aveva capito e le condizioni del bimbo erano regredite allo stato di partenza.

Mentre il medico procedeva con la visita e tuonava il proprio disappunto per le mancate cure, la madre ascoltava inerme, quasi inebetita le parole di quest’uomo severo tradotte nella sua lingua. Risultato: tutto da rifare. Si rendeva necessario un nuovo ricovero, l’ applicazione del gesso per la seconda volta e la ripresa del mantenimento attraverso il tutore.

Assisto alla scena in silenzio; dentro, una lotta per tenermi lontana dal giudizio. Guardo il piccolo tranquillo e sereno appoggiato al seno della madre, due occhi neri senza colpa, una vita davanti: penso al suo futuro a quanto sia importante garantirgli forza e salute e permettergli di crescere alla pari degli altri e lottare per esistere. Qui più che mai la vita non fa sconti.

Sposto lo sguardo sulla madre, fragile e smarrita, mi sembra di avvertire tutta la sua solitudine e colgo un velo d’imbarazzo nel suo sguardo, gli occhi abbassati a terra, un’agitazione soffocata: provo pena. Rifletto e ancora una volta faccio uno sforzo per mantenermi lontana dal giudizio.

Rifletto sul significato di essere madre e quanto debba essere difficile esserlo qui in questo angolo di mondo e provo solidarietà e rispetto per questa donna che cresce un figlio in silenzio, facendosi bastare le poche risorse a disposizione.

*elemento fondamentale per la vita quotidiana della donna zambiana è un panno di cotone colorato che serve da sacco per contenere i piccoli, da gonna, da grembiule e molto altro…

Independence rain

E la pioggia ritorna, inaugurando ancora una volta la “rain season”.

Il profumo delle prime gocce sulla terra polverosa si divincola nelle pieghe più sottili e profonde, sino ad arrivare la, dove riposano i ricordi dell’infanzia.

Il cielo si apre sopra Lusaka, bagnando palazzi addormentati al sole giallo del mese più caldo dell’anno. La terra ha sete, ma non sa bere i primi sorsi d’acqua. La madre delle madri si ritrova di colpo bambina, costretta ad imparare ancora una volta a ricevere dalla mano del cielo, cucchiai di nuvole gonfie d’acqua.

Piove su Lusaka, piove su quarantanove anni di storia, su bandiere di colori vivi e aquile fiere con ali spiegate. Piove sui ricordi di una Rodesia che non c’è più, e piove, come pioveva nel 1964, su Kaunda, sulla sua guerra vinta contro i soldati della corona.

Piove su i “freedom fighters” che hanno combattuto per l’indipendenza e piove sul sangue indelebile che ha liberato un popolo. Una pioggia che non cancella la traccia.

Piove sui ricchi e piove su chi vive di stenti, sui giardini con piscina delle zone residenziali e sulle strade di fango dei compound.

Piove sulla gente che festeggia una libertà lontana e piove su gente schiava del proprio martello costretta a spaccare sassi per campare, su chi non conosce festa. Piove su un sistema economico che fa già acqua di suo, e piove su tasche asciutte come occhi di chi non ha più lacrima da piangere. Piove sui Ghetto Angels, un gruppo di giovani volontari di Bauleni, che camminano su strade scivolose, per portare la loro presenza bagnata nelle vite di chi fa più fatica, tra migliaia di gente che sopravvive.

Piove sulle loro teste, piene di preoccupazioni e pensieri. Piove sui loro sogni giovani e straordinariamente fragili, piove sulla bellezza nascosta come seme nella terra, pronta a spuntare tra rovine di cemento. Sono fiori ostinati, pronti a germogliare nel nero dell’asfalto umido e caldo. Piove sulla resistenza di chi pretende il suo pezzo di bellezza nonostante l’inferno attorno, e piove anche su chi l’inferno lo crea e lo nutre.

Piove sui palazzi del business globale e sui mercati colorati, piove sul mondo della cooperazione, su chi ci crede e su chi specula e vive sulla pelle di chi è reso povero e mantenuto tale per far funzionare il giocattolo degli aiuti.

Piove sullo Zambia e la sua gente, piove come ha sempre piovuto il 24 ottobre, facendo cadere ancora oggi sulla testa della gente, gocce di speranza e di libertà per tutti nessuno escluso. Piove in questo giorno dell’indipendenza, e come una benedizione, ancora una volta apre il cielo e disseta la terra. Succede anche oggi, a distanza di anni, scende la pioggia dell’indipendenza: l’Independence rain.

Dare

Dare. Quando parti per un viaggio come questo ti immagini che il tuo ruolo sia quello di dare, aiutare. Sono partita con una valigia vuota di vestiti e piena di cose da dare: magliette e pantaloni per le attività sportive, auricolari per cellulari, palloni, un lettore mp3, un lettore CD, pennarelli colorati, pupazzi per i bimbi e un sacco invisibile sulle spalle, pieno di buona volontà.

All’atterraggio, nell’attesa trepidante di uscire dal perimetro dell’aeroporto e arrivare a destino, il pensiero della mia valigia piena di cose da dare mi faceva sentire un certo senso di orgoglio, di soddisfazione; la soddisfazione che provi quando sei convinto di poter contribuire a rendere una cosa migliore. L’eccitazione tutta egocentrica di un piccolo eroe. E nella corsa in macchina dall’aeroporto a Bauleni il desiderio di aprire la mia valigia e dare, era il primo pensiero.

A Bauleni vivono circa 35000 persone, più della metà sono bambini, e quasi tutti hanno accesso ad un solo pasto al giorno. Ai primi bambini che ho incontrato ho chiesto l’età: 12 anni. Mi giro verso Diego per chiedere se avessero detto una bugia: mi risponde che 12 anni è la loro età, che l’alimentazione qui è diversa e la risposta fisica è diversa di conseguenza. Un silenzio ferma il pensiero per un secondo: la mia valigia piena di gadget di fronte a tutto questo è apparsa semplicemente ridicola.

L’organizzazione per cui lavoro, si chiama In & Out of the Ghetto. Il suo logo riporta forti e chiare due parole: Empowerment e Development. Lasciando un attimo a margine il concetto di development – sviluppo – che gli studi di Sociologia mi hanno insegnato a trattare con cautela, i miei giorni a Bauleni mi hanno portato invece a comprendere, forte e chiaro, il valore e la potenza del concetto di empowerment: dare potere. In questo caso, dare potere alle persone.

Non è una valigia piena di gadget, di cibo, o di soldi ad innescare un cambiamento, ma il potere nelle mani delle persone intese come singoli; il potere di prendere in mano la propria vita e di darle una direzione precisa, il potere della consapevolezza e della conoscenza che permettono la scelta, dell’autostima e della fiducia in se stessi che possono far scalare montagne e attraversare deserti. I miei giorni a Bauleni mi hanno insegnato che non c’è dare che valga come dare potere. Accompagnare le persone a vedere oltre il dolore, oltre i problemi quotidiani, oltre le obbligazioni che esauriscono il tempo e le forze a disposizione. Aiutare loro a sentire che la vita è un dono che va vissuto, non nel tuo modo, ma nel loro, non verso la tua strada ma verso la loro che piano piano si rivela e in cambio vedere la speranza che si riaccende negli occhi degli altri.

Il senso della mia presenza

Rifletto sul senso della mia presenza qui a Bauleni: cammino per le strade di un posto che qui si chiama ghetto. Qui, e anche a casa. Condizioni economiche al limite della sussistenza, disagio sociale, micro criminalità, migliaia di famiglie vivono sotto la soglia della povertà.

E io cammino con il mio zaino Eastpack, il mio Mac nella sacca, la macchina fotografica, i miei sandali Teva, i soldi in tasca, per le strade polverose di questo triangolo di 35000 persone e nessuno, nessuno osa importunarmi, non un singolo mi chiede di andarmene.

Cammino e la gente mi osserva passare dalle verande rosse delle case di terra cruda e blocchi grezzi di cemento pressato. Alcuni salutano, i bambini corrono incontro incuriositi. Mi chiedo se tutti sti piccoli la sera hanno qualcuno da cui tornare. L’approccio misericordista che ho assorbito a casa si innesta in automatico e mi impone la visione “classica” del piccolo povero orfano abbandonato. La realtà è diversa: apprendo che non ci sono orfani nel compound. O meglio, i bimbi senza genitori sono tanti – l’aspettativa media di vita si dice non superi i 40 anni – ma la famiglia qui è ampia, è allargata, e un bimbo che nasce è figlio di tutta la famiglia, non solo dei genitori stretti. Tutti condividono la responsabilità della sopravvivenza: la continuità in grembo alle nuove generazioni. Arrossisco in silenzio e per un secondo mi chiudo le mani sul viso come fanno i bimbi, di fronte alla consapevolezza di aver aderito ad uno stereotipo. Uno dei tanti che in un modo o nell’altro plasmano la nostra capacità critica.

La mamma non è una sola come da noi: i bambini chiamano “mama” la sorella, la zia, la cugina, anche l’amica e quando il calore della madre sanguigna si spegne ci sono altri grembi caldi e pronti. Non sarà uguale, certo, ma meglio del vuoto o dell’etichetta di orfano tatuata a pelle per la vita intera. Mi viene in mente che l’Africa è Madre.

Rifletto ancora e trovo questa cosa bellissima: alzo gli occhi dalle dita dei piedi che fanno pressione e mi tengono bene in equilibrio e improvvisamente la riesco a vedere, tutta intera, la famiglia. I bambini sono della famiglia intera e la famiglia, nella sua unità è forza che resiste alla morte, all’abbandono, alla TBC all’HIV, alla malaria, a tutte le insidie. L’unione è forza e la famiglia diventa corazza inespugnabile.

Sono i miei primi passi verso il rispetto profondo che arriverò a provare per questa comunità.

La casa_per cominciare

La casa, che quando sei a casa sembra quasi un ingombro: devi pulire, sistemare, riordinare e quello che hai attorno non lo vedi nemmeno più. Troppe cose, mai spazio a sufficienza. La casa che funziona da sola: l’acqua che scende dal rubinetto, la lavatrice lava i panni, la lavastoviglie lava i piatti, lo scaldabagno scalda l’acqua e la luce…. la luce.

Qui la casa aiuta, si, ma meno.

La prima notte nel compound è stata disarmante. Nel vero senso del termine ci ha lasciate senza “armi”. Niente luce per cercare il pigiama, niente acqua per lavare i denti, niente bagno per fare la pipì se non la latrina, fuori, nel buio più totale. La prossimità con i vicini è altra cosa con cui non avevamo fatto i conti: la condivisione degli spazi e dei beni primari – acqua e aria – il rispetto per lo svolgersi della vita altrui dall’altra parte del muro. I rumori, i pianti dei bimbi, i latrati dei cani, l’odore acre di fumo dei mucchi di rifiuti che bruciano ai bordi della strada e negli angoli dei cortili. I nostri spazi privati sono altra cosa. La dimensione individuale, a noi tanto sacra, qui è messa a dura prova. La mattina del secondo giorno Diego ci trova più riposate, un sorriso largo sul viso ma ancora sconcerto negli occhi: “cià dai – dice – vi porto a fare una colazione all’occidentale che vi ripigliate un po’. Facciamo le cose step by step – pangono pangono (in lingua Nyanja). Una mazzata al mio orgoglio da viaggiatrice-che-sa-adattarsi, doppio rospo da ingoiare perché mi trovo ad accettare di buon grado. E la sensazione mi riporta indietro ad un viaggio in Laos fatto qualche anno fa, quando certa di aver lavorato su me stessa per spogliarmi il più possibile dal mio “eurocentrismo” endemico, mi scoprivo a sorprendermi del fatto che nessuno mi cercasse soldi o mi notasse per strada. Senso di imbarazzo, quell’imbarazzo intimo e profondo che ti rimette al tuo posto. Zikomo* Zambia, Zikomo Laos.

Facciamo colazione ai lati della strada principale in un bar che assomiglia ai nostri, a ridosso di un supermercato che assomiglia ai nostri. C’è movimento, la gente vive – come a casa – lavora, si ferma per pranzo, ritorna al lavoro, va in banca. Le commesse dei negozi sono belle di ebano, ben vestite, tacchi alti, trucco. Come a casa. Assorbo il mio succo di mango delizioso e intanto si accende dentro voglia di altro, di gente, di uscire nella vita che sta dietro. Facciamo la spesa nel supermercato: 15 euro per quattro scatolette di pomodoro a cubetti; li ho acquistati di getto, senza badare al prezzo pensando che a casa costano si e no un euro alla “tolla”. Altra ragione per sentirmi stupida, piccola, presuntuosa, sprovveduta, maccherona. Si riparte, via per strada con Clement e la macchina bianco-denti ad acquistare le cose che mancano per creare una “normalità” domestica. Acquistiamo un treppiedi di ferro con un secchio e un catino che servono da lavabo – ingegno dettato dalla necessità – sarà il nostro lavandino in casa. Uno spazzolino da water, degli stracci per pulire, un bagnoschiuma, pile per una torcia.

Entriamo in città per una via che è un laboratorio a cielo aperto: falegnami, impagliatori, fabbri, carpentieri, riparatori di ogni sorta, un “lusso” che a casa non ci possiamo più permettere perché il costo del lavoro rende diseconomica la riparazione ed inaccessibile l’opera artigiana. Passiamo per i grandi alberghi, le ambasciate, la sede delle nazioni unite – chiusa all’interno di una murata alta come quella di un castello con filo spinato – la cattedrale di Lusaka, i giardini, i viali alberati, sino a Cairo Road, il cuore della città.

Riconosco la frenesia che differenzia la città dai suoi sobborghi.

Ci fermiamo in una gelateria italiana, per un gelato vero che Clement assaggia per la prima volta. Leggo nei suoi occhi sorpresa, delizia e piacere: vorrei che il mio paese, così disperatamente bello, fosse sempre rappresentato da cose che suscitano queste sensazioni, che fanno brillare gli occhi. Purtroppo non è sempre così.

Al rientro a casa ci mettiamo sotto per riordinare, pulire, riorganizzare. Le donne sedute attorno alla fonte d’acqua guardano con aria sorpresa e sorridono. Mi chiedo che cosa sia ad incuriosirle e un attimo dopo mi rendo conto che stiamo riorganizzando una casa zambiana in una casa più italiana. E questo da fuori si vede. Quante volte lo vediamo fare ai nostri vicini o ai vicini dei nostri vicini che vengono da lontano trasportando bagagli e famiglie intere: la nostra reazione è difficilmente quella delle donne che mi sorridono incuriosite.

La sera scende presto e la casa suona più familiare. Ci diamo una sciacquata al buio mentre le stelle in cielo brillano di una luce che lascia a naso in su. Non è che a casa sia diverso: a casa la luce vera è affievolita dall’abbondanza di luce artificiale. Laviamo i denti nel lavandino nuovo di zecca, ci infiliamo nelle lenzuola riorganizzate, protette dalla zanzariera anti-malaria e la notte africana ci risucchia nel suo grembo tiepido.

Tre del pomeriggio_l’arrivo

Tre del pomeriggio, il personale di bordo apre le porte dell’aereo e in un istante l’aria fredda condizionata si ammorbidisce e si scalda. E’ l’aria d’Africa (mi dico) e attendo il mio turno per vedere il cielo. Io e la mariuccia, la mariuccia ed io due zaini in spalla, pesanti, i piedi che scendono ad uno ad uno i gradini della scaletta che ci collega a terra e finalmente tocco il suolo. Io e la mariuccia in una terra nuova, nell’emisfero opposto, dove la luna è capovolta e l’acqua nello scarico del rubinetto gira al contrario. Senza dire una parola, sfatte dal viaggio, sorriso ebete, ci incamminiamo verso una nuova esperienza.

I tempi per ottenere il visto non sono brevi, ci armiamo di pazienza fino all’arrivo del nostro turno, impronte digitali da scansionare e soldi da lasciare in pegno, ma tutto si fa e arriva anche il nostro momento. Passaporto, timbro, si paga e si va. Dall’altra parte delle porte ad apertura automatica c’è il Diego che ci aspetta!

Welcome to Zambia! In un secondo saltiamo sull’auto di Clement il tassista, bianca come i denti, pulita e ordinata con copri-sedili di pizzo candido, i bagagli pieni pressati nel retro e via verso Bauleni che sino ad oggi avevo visto solo attraverso lo schermo del mio PC.

La strada è dritta, confini sfumati dal rosso intenso della terra, l’auto corre veloce sotto un cielo turchese e nuvole di zucchero filato e la testa che viaggia, viaggia, viaggia. Si guida a destra, come in Inghilterra. L’auto gira a sinistra, curva a gomito e procede; a destra un estensione enorme di tante croci affogate nelle sterpaglie, chiedo cos’è? un cimitero. Si procede, case bianche orlate da siepi di bouganville, acacie viola in piena fioritura e manghi che maturano al sole. Bellezza. Gente in cammino ai lati delle carreggiate. La strada scende ed entra in Bauleni, uno dei 23 Compound  della città di Lusaka, 35.000 persone in un triangolo di terra dai lati lunghi 1 kilometro e due. L’impatto è uno schiaffo in faccia, nonostante la preparazione, nonostante i racconti, nonostante le foto, nonostante i buoni propositi e la forza che credi di avere, l’impatto lascia storditi: vita brulicante al crepuscolo, scorribande di bambini, bambini a grappoli e mamme dagli occhi profondi, madri. Odori e vialetti di terra battuta, bracieri che scaldano la loro pancia di carbone in attesa della marmitta della sera. Il sole sale presto al mattino e scende presto la sera. Luna e stelle sfavillanti, vicine, più vicine rispetto alle nostre latitudini. Bellezza. E alterità. Mi sento distante mille anni luci dal mio mondo e la distanza, srotolata di fronte, fa paura.

Per festeggiare il nostro arrivo facciamo cena con Diego, Ethel, Berta, Mariella e Davide, due ragazzi arrivati in bicicletta da Kampala. Davide fa una corsa contro il tempo per riuscire a cucinare due spaghetti sulla piastra elettrica; è giorno di “load-shedding”, giorno in cui la corrente viene sottratta al compound per essere venduta all’estero. Solo i compound però, la città e i suoi quartieri ricchi rimangono illuminati. Lo sapevo, ne ero al corrente, ma ancora una volta vivere non è come sentir dire.

Arriva un piatto di spaghetti con pomodoro e piselli, buonissimi ma lo stomaco è chiuso. Vino sudafricano a sciogliere le membra. Troppa stanchezza, troppe immagini negli occhi. Si cena intimi a lume di candela, nonostante il black out la musica non manca, la gente è attrezzata. Prassi. Ci avviamo verso casa, la casa dove vivremo per il prossimo mese. Niente luce, niente acqua, il bagno è fuori. Lavo i denti, infilo il pigiama e parte una notte di sonno che mi riporterà il sorriso.

 

Da Casalserugo a Bauleni

Due amici, Davide e Mariella, partiti in bicicletta il 7 Luglio, da Casalserugo, un paesino in provincia di Padova dove abitano, Destinazione: un posto lontano e sconosciuto: Bauleni, un compound alla periferia di Lusaka, Zambia. Le motivazioni che li hanno spinti ad intraprendere questa esperienza sono diverse, come spesso capita quando ci si mette in movimento. Il viaggio è ricchezza personale, autoconoscenza. Come diceva de Montaigne: “viaggiare è il modo migliore per sfregare e levigare il nostro cervello con quello degli altri. Conoscere gli altri per conoscere meglio se stessi”. Viaggiare è la ricerca di bellezza che ci spetta. Ma c’è un secondo scopo, quello della condivisione chi abita lontano, con gente che nemmeno conoscono. La loro fatica di mettersi in sella ha lo scopo di aiutare noi, della in&out of the ghetto, di far conoscere la nostra associazione e i nostri progetti. Sono la nostra cassa di risonanza che attraversa l’Italia e tre sati africani. La prima tappa è breve, fino a Rovigo, ospitati da amici. Si fermano ovunque gli venga data ospitalità condividendo il loro e il nostro sogno. Dopo Rovigo, Ferrara e poi giù verso Roma attraverso Imola, Pesaro, Chiaravalle, Assisi, Spoleto, Campoleone e tanti altri paesi e città dove ogni volta hanno incontrato persone disposte ad ospitarli, spesso anche se non li conoscevano. Il viaggio da Padova a Roma doveva essere l’allenamento per le loro gambe, ma è stato molto di più. La bici, permette di andare lentamente, lascia il tempo per guardarsi attorno, per lasciarsi sorprendere dal paesaggio, per riflettere e porsi tante domande. L’Italia gli ha mostrato scorci stupendi, e un’ospitalità che credevano persa. Da Roma l’aereo per l’Africa dove li attende una traversata impegnativa: Uganda, Tanzania e Zambia. I loro piedi toccano Entebbe (Uganda) il 26 Luglio alle 4:00 di mattina. Da Kampala, in mezzo ad al suo traffico caotico e pericoloso, alla seconda tappa africana: le Ssese Island, e dopo ancora verso Masaka, Kyotera e Mutukula al confine con la Tanzania, poi Mwanza, traghettati dal farry Victoria. Arrivati a Buswelo, hanno visitato l’orfanotrofio Hisani e poi di nuovo in viaggio, questa volta sul treno che da Mwanza li ha portati a Manyoni e ancora in sella verso Dodoma. Le tappe sono tante e in continua evoluzione, ma hanno alcuni punti fissi, come Iringa, dove visiteremo l’ospedale del Cuamm e i progetti della Papa Giovanni XXIII per proseguire verso lo Zambia. Tappa finale del viaggio: Bauleni ospiti della in&out of the ghetto per una decina di giorni. Davide e Mariella ci dicono: “Vogliamo ringraziare tutti quelli che stanno accompagnando il nostro viaggio e che ci hanno permesso di sostenere il progetto In&out of the ghetto. Per noi é importante che questo viaggio non sia solo personale. Poter condividere e concludere la nostra esperienza presso questo bellissimo progetto, vuol dire arricchire la nostra avventura e dargli un senso più profondo”.

Il loro arrivo a Bauleni è previsto per la metà di settembre. Grazie Mariella e Davide, vi aspettiamo a braccia aperte amici, per noi e un evento davvero importante e così vogliamo viverlo!

Tutta Bauleni non vede l’ora di conoscervi e abbracciarvi!

The Mi-Show-N

La televisione è un indicatore d’orientamento sociale delle persone: pochi hanno scelto di non averla, molti la guardano in modo moderato e altri vivono col telecomando in mano. Questo dato, definisce già il modo di essere e stare nella società, soprattutto a livello di partecipazione, ma questo è il segreto di pulcinella perché, va da se che, più tempo si spende da spettatore meno tempo si ha per altro. Il reality a sua volta è motivo di frattura tra gli spettatori.

C’è chi lo odia e chi ne vorrebbe sempre di più.

Il reality è una metodologia televisiva che, come dice la parola stessa, dovrebbe mostrare la realtà, così com’è, nello svolgersi della vita. Che cosa spinge poi lo spettatore a seguire reality non è un mistero: la voglia di “guardare” ciò che si pensa sia la “realtà” di un singolo o di un gruppo. C’è curiosità di vedere il privato, l’intimo, il nascosto, quello che si sa che accade ma non si vede quasi mai. Reality show, ovvero, lo spettacolo della realtà, la spettacolarizzazione di una determinata situazione.

Idea geniale, che ha funzionato, ma la domanda è questa:

quali realtà possono essere spettacolarizzate e quali no?

The Mission è un “reality umanitario” dove alcuni personaggi famosi aiuteranno degli operatori della [1]Unhcr, e della [2]Intersos nella loro missione. La meta scelta per lo “show” sono i campi profughi. Si leggono moltissime reazioni negative a proposito, e viene da chiedersi se sia la solita reazione e pregiudizio nei confronti dei “reality show” da parte di chi li odia a prescindere, oppure se sia una “insurrezione” guidata da un’onesta etica di fondo. Una sorta di grido di coscienza. Non nascondo che, già di primo acchito, questa cosa stride, ma andiamo oltre alla prima impressione. Le domande aiutano a ragionare e spingono a camminare verso una vita meditata e gustata, e anche in questo caso nascono per necessità di senso:

Chi è un profugo, e cosa ha vissuto per essere tale? Cos’è un campo profughi?

Il profugo è colui, che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, scappa dal proprio Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di mettere a rischio la propria vita. Il profugo diventa rifugiato dopo aver ricevuto dalla legge dello Stato che lo ospita o dalle convenzioni internazionali questo status e la relativa protezione attraverso l’asilo politico. I rifugiati possono essere esterni o interni al proprio Paese. (Articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati). Sostanzialmente la differenza tra profugo e rifugiato sta solo nell’accezione giuridica, mentre il vissuto può essere identico.

Il campo profughi quindi è un luogo in cui convogliano una moltitudine di storie e vissuti che portano con sé tutta la drammaticità dello strappo forzato dalla propria quotidianità impregnata di familiarità, per fuggire dalla violenza che disumanizza, discrimina, tortura, stupra e uccide. Sono spesso luoghi carenti di servizi basilari, iper congestionati, dove le azioni che dovrebbero essere svolte nell’intimità, avvengono alla luce del sole. Gesti semplici, come lavarsi i denti, fare il bagno, lavare le pentole, utilizzare bagni comuni all’esterno ecc. Una situazione di estrema indigenza, povertà e vissuti dolorosi. È questa la realtà che si vuole spettacolarizzare? Ma poi, per quale motivo? Quale sarebbe il valore aggiunto dal reality nella vita di persone che abitano nei campi profughi? Nella presentazione del programma si dice che: “i vip dovranno regalare qualche giorno di spensieratezza alle popolazioni locali”. C’è una parola che non funziona in questa frase che già nel suo complesso è quantomeno “leggera”. La parola è: regalare! Un regalo è fatto gratuitamente, un dono è distaccato dalle logiche di guadagno, e nessuno è così ingenuo da credere che i “vip” coinvolti nel reality lo facciano senza un compenso in euro. Teoria confermata dalla lista dei “vip” coinvolti nel reality, ovvero, personaggi che hanno già partecipato ad altri reality o che hanno poca, pochissima visibilità nel piccolo e grande schermo, quali: Michele Cucuzza, Albano Carrisi, Barbara De Rossi, Alba Parietti, Dario Vergassola, Paola Barale, Emanuele Filiberto, Vittoria Belvedere. Diciamo che non sono proprio sulla cresta dell’onda. Non si sta supponendo che queste persone non possano fare del bene, è la metodologia che fa problema.  Poi ci sono i guadagni di Rai uno, dei produttori, conduttori, dei cameramen, di agenzie pubblicitarie e da chissà chi altri ancora. Ovviamente il programma è fatto per guadagnare, ma sulla pelle di chi? Vendendo la dignità di chi? Abbiamo già un sistema di cooperazione internazionale che lascia moltissime perplessità, nell’approccio, nell’utilizzazione delle risorse e dei fondi. Abbiamo bisogno di un cambio di rotta, di un modo di operare più onesto e sensibile, più rispettoso capace di preservare e promuovere la dignità, e questo programma non aiuta nessuno, ne i rifugiati ne tantomeno la cooperazione, missioni di chiese comprese. È urgente adottare un modello d’intervento più sobrio e più vicino alla gente, che enfatizzi il bello che c’è, senza puntare sul pietismo per scopo di lucro. Le immagini di bambini sporchi col pancione e mosche sulla faccia hanno fatto il loro tempo e i loro danni. È ora di cambiare e temo che questa trasmissione remi in senso opposto. La responsabile dell’Unhcr Laura Iucci spiega la scelta di partecipare al reality con queste parola: “Collaboriamo a questo programma perché abbiamo l’opportunità di far capire al grande pubblico chi sono i rifugiati…”. Ma siamo sicuri che sia la modalità più rispettosa e più attenta verso le persone che vivono in quella determinata situazione? È questo l’unico modo per sensibilizzare il grande pubblico? Se il focus della mobilitazione di risorse attivate dalla Rai fosse veramente il bene della gente dei campi profughi, avrebbe potuto investire in modo diverso, utilizzando i propri canali per far si che la “massa” sia sensibilizzata. Sensibilizzazione e spettacolarizzazione sono due cose diverse. Serve un impegno comune, uno sforzo perché la dignità delle persone impoverite o in situazioni difficili sia rispettata e non esposta al pubblico. Come volontario, operatore umanitario, cooperante o semplicemente come uomo, chiedo alla UNHCR e all’associazione INTERSOS di rinunciare alla partecipazione di questo programma perché abbiamo bisogno di più mission sganciate da logiche di mercato e meno false “mi-show-n” spettacolarizzanti nocive per la cooperazione e per le popolazioni e comunità con cui lavoriamo.

Diego Cassinelli

In&out of the ghetto ngo

Bauleni Lusaka Zambia

 


[1] In base al mandato assegnatogli dalle Nazioni Unite, l’UNHCR ha il compito di fornire e coordinare la protezione internazionale e l’assistenza materiale ai rifugiati ed alle altre categorie di persone di propria competenza, impegnandosi nel ricercare soluzioni durevoli alla loro drammatica condizione. Per fornire protezione ed assistenza l’UNHCR è impegnato in tutto il mondo, direttamente o attraverso agenzie partner governative o non governative, in programmi che coprono entrambi i settori di attività. http://www.unhcr.it

 

[2] INTERSOS è un’organizzazione umanitaria senza fini di lucro, che opera a favore delle popolazioni in pericolo, vittime di calamità naturali e di conflitti armati. Fondata nel 1992 con il sostegno delle Confederazioni sindacali italiane, basa la sua azione sui valori della solidarietà, della giustizia, della dignità della persona, dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità per tutti i popoli, del rispetto delle diversità, della convivenza, dell’attenzione ai più deboli e indifesi. http://intersos.org/

 

Dillo prima

“Vicino al luogo dove avevano mangiato il pane, dopo che il Signore aveva reso grazie…”. (Gv 6, 23.)

C’è un grazie che precede l’azione. Solitamente, si dice grazie dopo aver ottenuto un qualsiasi favore, per segno di apprezzamento o solo per buona educazione. Grazie! Il Fantasista di Nazareth fa il contrario; prima ringrazia e poi le cose succedono. “Vicino al luogo dove avevano mangiato il pane, dopo che il Signore aveva reso grazie…”. Il grazie, precede l’azione semplicemente perché non è una parola, bensì un’attitudine. Vivere con il cuore pieno di gratitudine significa avere una speranza che anticipa la felicità. Significa avere un’anima che apre squarci di bellezza nella fatica e nel buio di una vita. Una costante gratitudine nascosta, ingrediente invisibile per vivere una vita felice. È il profumo inconfondibile della bellezza di vivere, contro l’odore stagnante del “mal di vivere”. Non “bella vita” ma “il bello di vivere” nonostante tutto. La gratitudine ha radici profonde, c’è ancora prima che si veda, che esca dalla terra come un filo d’erba. Mi immagino un Dio benedire con queste parole: ti auguro di riuscire a ringraziare prima di ricevere o appena prima che le cose accadano. È il grazie che precede il miracolo.

Sulla strada con

Finalmente a metà Giugno 2013 uscirà nelle librerie un libro scritto con un amico. Io scrivo di bauleni, un ghetto alla periferia di Lusaka, capitale dello Zambia, e lui, Filo, scrive dal Ciad. Raccontiamo storie che ci capitano davanti e che a volte andiamo a cercare, come cerchiamo l’incontro con la gente. Ogni attimo chiede di essere gustato con attenzione, perchè, nella sua ordinarietà, nasconde una bellezza da raccontare. L’idea è stata di Filo, e così, dopo mesi di lavoro, siamo riusciti a mettere insieme queste storie, questi stralci di vita dai colori vivi. Una parte del ricavato della vendita dei libri, il cui costo è di 11 euro (prezzo di copertina) finanzierà i progetti della nostra associazione: in&out of the ghetto, che si occupa di empowerment dei giovani e sviluppo di comunità. I fondi raccolti serviranno per la costruzione del Centro Sociale dentro Bauleni Compound: Steve Biko Social Centre.  A giugno sia io che Filo saremo in Italia per presentare il libro. Chi fosse interessato ad organizzare incontri con guppi, associazioni, parrocchie, scuole ecc, saremo ben felici di raccontarci e condividere. Potete contattarci via mail, Facebook o skype che trovate nella pagina dei contatti che trovate sul mio sito, o contattare Filo tramite il suo blog: www.sullastradacon.blogspot.com

 

La vita nelle baraccopoli del cosiddetto Terzo Mondo raccontata da un missionario comboniano e da uno laico, accomunati dalla giovane età, dalla capacità di sognare (e di lavorare per) un mondo migliore e dal profondo rispetto per le culture dei popoli al cui fianco hanno scelto di camminare.

È un cammino di speranza e di positività quello che ci regalano, fatto di vite di strada e di vite sulla strada, di quotidianità spiazzante, di ritratti di donne e bambini, di guerra e di pace, atmosfere inimmaginabili per chi vive bel limbo vellutato del Primo Mondo. Nella certezza che “noi non dobbiamo convertire nessuno, semmai lasciarci convertire”, che “il segreto è sapere accogliere e vivere la convivialità delle differenze” e che, infine, “il primo passo è condividere (un biscotto con un Iman!)”. Un libro che sa far divertire e riflettere.

Il giorno prima della domenica

È sabato pomeriggio, un giorno di sole e di vento. Dopo una giornata di lavoro e cammino, mi metto comodo sul divano di erba intrecciata. Mi godo attimi di silenzio mentre stringo un libro tra mani indecise se aprirlo o fermarsi alla copertina. Sono minuti piacevoli quando discerni su cose non importanti. Il vento attraversava i due locali senza chiedere permesso. Quei nove passi di casa percorsi da una corrente che accarezzava la mia stanchezza. A volte stanchezza e felicità sono amiche. Nel compound non esiste silenzio, l’unico possibile da sperimentare è quello dettato dalla mancanza di parole. Silenzio è fare silenzio, ed io ero zitto, ascoltando il rumore degli altri. I muscoli si stavano appena rilassando quando la suoneria del telefono li ha costretti a contrarsi nello sforzo di rialzarmi per rispondere. Non lo sapevo ancora, ma il mio momento di gloria sul divano era appena finito. Uno dei nostri ragazzini della squadra di basket, Joseph, si era spezzato il polso, e Bright, l’allenatore, lo aveva accompagnato all’ospedale pagando di tasca sua un taxi. Non aveva più soldi per pagare le varie visite, così ha pensato di farmi uno squillo. La voce di Bright era bassa e preoccupata, e le distorsioni della rete la rendevano ancora più cupa. Un giro di chiave, porta alle spalle, e di nuovo ingrovigliato nella giungla urbana di rumori. Il taxi correva nel traffico di Lusaka, mentre il sole si faceva basso e rosso. Al cancello dell’ospedale governativo c’era Bright ad aspettarmi, con sguardo serio e con la sua solita postura da rapper. Joseph era sdraiato su una panchina di legno consumata dal tempo. Alternava smorfie di dolore con momenti di calma che assomigliavano al sonno, mentre noi, appiccicavamo le nostre parole al vetro sporco della ricevitoria.

Uno sguardo alle lastre e poi il verdetto: “ricoverato!”.

Il telefono della madre di Joseph era spento, quello del papà era acceso ma lui era ubriaco. La notte era nostra. È stata una decisione presa in silenzio, prima ancora di sapere che non ci sarebbe stato nessuno seduto a fianco del letto del ragazzino. È stato naturale. Per scegliere serve sempre pensare, ma a volte l’intensità del pensiero si concentra in pochi secondi e si confonde con istinto. L’operazione era fissata per le 21:00, salvo imprevisti. La maggior parte dei dottori che ho incontrato, non smentisce l’idea che ho di loro, e due dei tre incontrati quella notte non han fatto che confermare. Lo status di medico a volte rovina, soprattutto quando smettono di essere uomini per rimanere solo dottori.

Chi ha fatto la differenza è un medico donna, che avevo incontrato in casa di amici italiani una sera. Ci siamo riconosciuti tra il mio camminare a vuoto e il suo sfogliar cartelle. Si è presa cura del nostro ragazzo come se lo conoscesse da anni. Una donna non particolarmente abile in comunicazione, timida e tecnica insieme, ma vicino alla situazione della gente. Umanità: ecco la descrizione in una parola. Forse perché è donna e madre, o forse, perché sa che il suo non è solo un lavoro. L’attività principale di una persona che sta vicino a un malato è aspettare. È una continua attesa; attesa che gli facciano le lastre, che escano i risultati, che lo portino in sala operatoria, attesa che esca, che si svegli dall’anestesia. Attesa che dica qualcosa. Attesa che sorga il sole, e nell’attesa si osservano le cose.

Ho sempre visto la realtà dalla latitudine della mia casa nel compound. Vedevo le cause e gli effetti parziali che iniziavano e finivano li, nel ghetto. In una notte di attesa è cominciata una tetra sfilata di dolore, contraddistinta dal colore rosso scuro del sangue che mi ha mostrato altro. Quello che non vedevo. Era tutto calmo dopo le 21:00, quando un grido improvviso ha stracciato il silenzio come un foglio da un quaderno. Affilato e freddo come l’acciaio di un coltello che s’infila nella carne. Una donna piangeva il suo uomo, morto per motivi che non so e non saprò mai. Se ne andato lasciandola ancora giovane e spossata dalle lacrime. Se ne andato, lasciandola sola con la disperazione accanto. Sola con le sue grida.

Dopo dieci minuti, con l’eco del pianto ancora nelle orecchie, un taxi ha portato una donna ripiegata su se stessa con la faccia sfigurata. Un’amica raccontava l’accaduto. Picchiata dal marito, da chi un giorno le aveva promesso amore: “prometto di amarti e rispettarti nella gioia e nel dolore….ecc ecc”. Quella sera l’amore è stato dimenticato, e il rispetto ha preso voce di tonfi, colpi affondati su ossa e pelle che si spaccano. La gioia è stata barattata con un’abbondate dose di dolore dal sapore di ferro. Quel che restava dell’umanità, entrava dalle porte grigie e spalancate del pronto soccorso, lasciando sul pavimento tracce del proprio dolore. Gocce di sangue, come tasselli di un mosaico senza un vero disegno da completare. Forme senza senso pronte a essere cancellate con un colpo di straccio, per ricominciare lo stesso rito la notte seguente. File di macchine continuavano la loro processione, vomitando sull’asfalto dell’ingresso storie finite male. Uomini ubriachi con occhi gonfi, labbra spaccate, teste fasciate con pezzi di stoffa per chiudere ferite, e ancora donne picchiate per “eccesso d’amore” per quella promessa tradita. Un congolese rimasto con un occhio solo, perso in una rissa perché colpito da una palla da bigliardo. Coppie finite per incidenti stradali, lui steso e freddo su un lettino e lei in stato di shock; una condizione che la protegge dal troppo dolore.

È sabato notte e il nostro ragazzo dorme di sonno chimico, gli effetti dell’anestesia che lo rendono immune a tutto quello che gli sta succedendo attorno. È l’una e gli occhi cominciano a bruciare, è il pizzico del sonno lascia un’espressione poco intelligente, disturbando il bianco degli occhi. Da fuori si sentono avvicinarsi voci strozzate in gola dallo sforzo, sino a mostrarne i volti. Quattro ragazzi portavano un corpo di donna reso vivo solo da gemiti sottili. Il sangue cadeva sul pavimento liscio e grigiastro, ma non si capiva da quale parte uscisse. La quantità di sangue perso era impressionante. Sul corpo della donna, sui vestiti dei ragazzi che la tenevano a peso morto, sul camioncino che l’ha portata all’ospedale e sul pavimento.

La gente incuriosita si avvicinava alla donna con smorfie dispiaciute, lanciando un commento o solo un verso, chi di dolore, chi di compassione e chi di disapprovazione. Il dolore incuriosisce l’essere umano. Il sangue sparso provoca emozioni contrastanti, attrae e respinge allo stesso tempo. Nella confusione composta sento il mio nome: Mwanza! Così mi chiamano a Bauleni. Era un ragazzo del mio compound, erano tutti del mio compound, anche la giovane donna. Era stata “accoltellata” più volte con una bottiglia di bitta rotta, nel posto in cui si concentrano i bar del ghetto. Il fatto più violento di quella notte, era stato compiuto a Bauleni, non molto lontano dalla mia casa. Io e Bright ci guardavamo con occhi stanchi ma non più assonnati. Il sonno era uscito all’entrata della donna moribonda. Dolore e sonno a fatica condividono lo stesso spazio. Le quattro del mattino arrivarono, portando con sé un attimo di calma e quel po’ di sonno che aveva lasciato i nostri occhi aperti. Restavamo la, seduti in dormiveglia aspettando il sole che, come un antidoto, si portasse via tutto il veleno della notte. Restavamo la, seduti su sedie scomode aspettando di portare a casa il nostro ragazzo e lasciarci alle spalle la notte prima della domenica.

Liturgie di strada

Un gesto semplice, fatto per strada, tra i murales di un parchetto e le vecchie case di ringhiera dei Navigli. Attorno, mille luci spavalde che pretendono inutilmente di rubare il posto al sole e il tentativo di silenzio di una città che non sa tacere. Sono gesti che escono dagli schemi. Un uomo e una donna che si lavano i piedi reciprocamente su un marciapiede di Milano.

E’ la stessa stranezza che deve aver provocato Gesù di Nazareth quando lo ha fatto ai suoi discepoli. Sono segni davvero capaci di mettere in discussione, di provocare, di immaginare un nuovo “possibile” da realizzare. Rompere le righe e le sicurezze. Forse solo adesso riesco a sfiorare ciò che don Tonino diceva molti anni fa: “Ritorniamo al potere dei segni invece dei segni del potere”. Perché sulla strada questa “liturgia” diventa più vicina, diventa più comprensibile? C’è qualcosa che non si può capire se non sulla strada.

Forse perché è impastata con la vita. Diventa vita. Non è qualcosa di estraneo da compiere solo in certe occasioni, in certi posti, con certe “coreografie”. Non sto togliendo valore a ciò che da due millenni si compie e si prepara nelle chiese di tutto il mondo. Dico solo che ci siamo dimenticati il luogo prediletto per eccellenza. E’ come se Dio avesse trovato casa e si fosse messo comodo, sul suo divano, con il telecomando in mano. Abbiamo tolto forse a Dio il permesso di viaggiare? L’abbiamo messo in pensione?

Stai qui Dio, non è più tempo di fare quello che facevi una volta!  Il tratto nomade caratteristico di Dio è andato perduto?

Ma che! Dio è un gitano vagabondo e la sua roulotte può ancora percorrere le strade del mondo. Non ci crediamo più? Questo è il vero peccato! Basta scendere in strada e buttare le nostre sicurezze per tentare di crederci ancora. Pensiamo di proteggerlo togliendolo dai crocicchi delle strade, dai marciapiedi delle stazioni. Ma Dio è un cantastorie spettinato e il suo canto e la sua fantasia sono doni che sfuggono alle segregazioni, ai confini e alle reclusioni che tentiamo inutilmente di imporgli. Il suo posto non è uno. Il suo posto è ovunque ci siano donne e uomini che tentano di abitare l’esperienza del vivere.

Stai chiuso nel tabernacolo Dio, lì nessuno ti oltraggerà. Ma chi ha detto che Dio non vuole immischiarsi con l’umanità?! Dio si vuole ancora sporcare di umano! Dio scivola via dalle pretese di monopolio e di protezione e torna a danzare scalzo come un circense inquieto nei viali e nei mercati rionali, tra pozzanghere e fango, tra suoni di clacson e richiami di venditori ambulanti, tra puzza di fritto, profumi di dolci e odore di vita. E’ il Dio senzatetto di cui, forse, oggi ci vergogniamo un po’!

E’ la follia di Dio! Quella follia che non abbiamo il coraggio di riconoscere per paura di essere irriverenti. Ci siamo dimenticati che Tu sei stato preghiera per chi non poteva accedere al tempio. Ci siamo dimenticati che il vento non rispetta i semafori e le precedenze, ma accarezza tutto quello che incontra, palazzi, capanne, città e autostrade, campagne di granturco, risaie e pioppeti. Dove sono finiti i ricordi delle tue “liturgie” di strada?

Mi illudo a credere che si possa ritornare all’essenziale?

Il mio non è un moto di ribellione né tanto meno un rifiuto categorico della tradizione.E’ solo il tentativo maldestro ma consapevole di vivere un Dio che chiama dalla polvere e dall’asfalto. Un Dio che sa bagnarsi di pioggia e di sudore. Un Dio che sa ancora sedersi per terra a raccontare la vita a chi lo ascolta. E’ il Dio dei cortili pieni di gente che prega all’aperto, perché le case sono troppo piccole per contenere la debolezza e la fragilità di quell’alito di vita.

Sto facendo poesia? Forse, ma non sto inventando nulla. E’ “colpa” di questo Dio poeta che si è immaginato un cielo con la Luna e le Stelle.

Tutto questo l’ha inventato Dio,

… io ne sento solo nostalgia.

La Domenica dell’incoerenza

Stavo per entrare in chiesa, quando ho ricevuto una notizia importante.

Le parole sentite al telefono mi risuonavano in testa e mi distraevano. Ero in chiesa, ma non ho sentito una parola di quello che è stato detto.

È la mia domenica delle palme. Non l’ho mai vissuta in questo modo, ma non mi è dispiaciuto, perché mi ha obbligato a pensare un po’ di più. È la domenica della falsa gloria, delle banderuole che cambiano direzione con un colpo di vento. È la domenica di chi prima beatifica e dopo ammazza. In realtà in questa domenica si festeggia la codardia umana a nostra insaputa. È la domenica dell’incoerenza. Siamo tutti in processione, con ulivi e palme che sventolano come bandiere, con la stessa passione con cui dei tifosi escono dallo stadio dopo una vittoria. A volte non c’è differenza tra tifosi e credenti.

Cosa c’è da gioire? Ci viene spiattellata in faccia la vigliaccheria umana e noi siamo contenti.

Il racconto del vangelo denuncia al tribunale della nostra coscienza la mancanza di una morale di fondo, e noi, in tutta risposta, alziamo al cielo la nostra vergogna come qualcosa di cui vantarsi. La domenica delle palme è la denuncia dell’ipocrisia umana.

L’umano è anche questo; incapacità di prendere posizione.

Gaber, nel monologo, “la paura” dice: “non si è mai abbastanza coraggiosi da diventare vigliacchi definitivamente”. È quell’audacia di meno a far cambiare le rotte. La paura è una pessima guida. Anche la mancanza di pensiero conforma il singolo, e alla fine, succede che una massa, una folla, prima esulta alla vista dell’eroe, e qualche giorno dopo, fatto criminale, gli ringhia addosso la morte con schiuma d’odio alla bocca. È l’assenza di pensiero su cui poggiare ciò in cui si crede ad essere omicida. Così, altri pensano per noi, e non resta che eseguire ciecamente ciò che non comprendiamo per pigrizia o paura. Conformismo per paura di essere se stessi. Paura e mancanza di pensiero sono il motore trascinante delle folle. Questa domenica sussurra all’orecchio, che forse è meglio posare atterra ulivi, palme, bandiere, stendardi e qualsiasi cosa sventoli al cielo, per cominciare a prendere in mano il timone che permette di avere una direzione propria nonostante il vento. È la domenica dell’incoerenza che strattona a pensare e capire verso dove si muovono i passi e perché. Questa domenica di sole, qui a Lusaka, mi chiede di saper decidere, di prendere una posizione. Pensare, discernere, decidere per poi poter dar ragione della scelta fatta. Le ragioni della scelta non le devo dare almondo, novanta su cento non le capirebbe, le devo dare a me stesso. È necessario riflettere per capire devo perché soffrire e gioire per una scelta fatta.

La domenica delle palme dovrebbe essere in realtà la domenica del pensiero critico, per evirate di conformarmi alle correnti della folla, per evitare di essere solo una bandiera al vento che prima ammira un eroe e dopo ne sparge il sangue.

QUANDO SI E’ TROPPO LONTANI

Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno più vino”. E Gesù rispose: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”. La madre dice ai servi: “Fate quello che vi dirà”.Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: “Riempite d’acqua le giare”; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: “Ora attingete e portatene al maestro di tavola”. Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”. Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui. Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono colà solo pochi giorni. Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i

banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. I discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora.  (Gv 2, 1-17)

 

 

A volte quello che si vede non è ciò che realmente è. Qui succede qualcosa, e quel qualcosa è interpretato da una persona che non ha assistito alla scena, e interpreta l’accaduto in modo del tutto personale. Il maestro di tavola non sa quello che è successo, ne vede solo il risultato, assaggia il vino, si sorprende del fatto del tutto inusuale di gustare quello migliore alla fine, e fa chiamare lo sposo.

Lo sposo, e chi per lui ha organizzato la festa, non solo non ha meriti, ma è pure in difetto, perché in occasione di una festa così importante, ha sbagliato i calcoli ed è restato senza vino.

L’interpretazione del maestro di tavola stravolge le carte e si congratula con chi non ha nessun merito e non sa nulla dell’accaduto. Lo sposo è in errore ma viene lodato. Probabilmente non sapeva nemmeno che il vino fosse finito.

La reazione dello sposo poi, non viene descritta dalla comunità di Giovanni, ma viene evidenziato il fatto che qualcuno sapeva come fossero andate le cose.

Non è il maestro che comanda e dirige il lavoro degli altri a capire la situazione, bensì i servi. Non chi comanda, ma chi lavora. Chi si sporca di vita vera intuisce la direzione. “… e non sapeva donde fosse, ma lo sapevano i servitori che avevano attinto l’acqua”.

Sono quelli che si arrabattano con i fatti della vita che possono fare sintesi, a quelli seduti nei propri privilegi resta poco da capire. Possono solo tirar a indovinare.

Sono i servi, i testimoni, perché sono a contatto con i fatti. Dio si esperimenta.

Il maestro si lancia in supposizioni, e lontano dalla verità dei fatti non gli resta che la sua immaginazione fuorviata. Versione, la sua, molto lontana dalla realtà, addirittura contraria. Scambia, infatti, un difetto per pregio.

Ecco perché non funzionano le cose. È per questo motivo che la gente tira a campare perché è governata da gente lontana dalla realtà, fuori dalla vita vera, e seduti sui velluti dei loro oziosi privilegi, crogiolati dalle lusinghe del potere, scambiano per vino ciò che è acqua… e  stavolta non è un miracolo ma un’omissione di responsabilità.

 

Con un tocco

E viene a lui un lebbroso: supplicandolo e inginocchiandosi e dicendogli: “Se vuoi, puoi mondarmi!”. Ed (egli) mosso a compassione, stesa la mano, lo toccò e gli dice: “(Lo) voglio, sii mondato”. E subito andò via da lui la lebbra, e fu mondato . Ed (egli), ammonendolo severamente, subito lo scacciò e gli dice:
“Bada, non dire niente a nessuno, ma va’, mostrati al sacerdote, e presenta per la tua purificazione ciò che prescritto Mosè, a testimonianza per loro”.
Ma quegli, uscito, cominciò a proclamare tutto e a divulgare la parola,
così che non poteva più entrare manifestatamente in città, ma era fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte. Mc 1, 40-45

Chissà se quel lebbroso è stato guarito veramente. In questo stralcio di vita messo a parole, il vero miracolo sta in un tocco.
Mai nessuno, senza il suo stesso stigma, lo aveva toccato prima di quel momento. Mai. Non serve molto per fare sentire un uomo davvero umano. Non ci sono chilometri da percorrere, solo la distanza di un braccio e il miracolo si compie.
Si macinano moltissimi chilometri, da viaggiatore, da nomade, da pellegrino soltanto per essere toccati. Chiamala autoconoscenza, intuizione, saggezza oppure grazia, ma alla fine è “il tocco” che ci serve per sentirci vivi.
C’è un viscerale bisogno di essere toccati, e quell’Artigiano di Nazareth ci dice che non siamo poi così distanti dalla mano amica. Ciò che serve è a “portata di mano”. Se s’imparasse ad allungare il braccio verso un altro corpo dipinto delle sue differenze, accadrebbero miracoli. Il tocco che cerchiamo è quello di chi ci respira vicino. Quante persone avrà avuto vicino quell’uomo affetto da lebbra? Migliaia e nessuno. Migliaia lo hanno bypassato, ma nessuno gli è stato vicino. Nessuno l’ha toccato.
Perché rendiamo tutto così difficile? Perché nascondiamo quella terra che ci è stata promessa in dono? Possiamo solo nasconderla perché la nostalgia di un singolo sognatore può farla riaffiorare come Atlantide dai mari della disumanizzazione. La nostalgia della bellezza che ci abita e non ci lascia quieti e spero non lo  faccia mai. Perché costringiamo un uomo a supplicare e inginocchiarsi privandolo della sua dignità?
Questa è la lebbra che lo sfigura: la rimozione della sua dignità è lebbra.
La lebbra è sinonimo di stigma. Aids, tossicodipendenza, fallimenti in amore o nel lavoro, orientamento sessuale, appartenenza, credo ecc. Con il tocco lo stigma sparisce come la lebbra di quell’uomo: “lo toccò… e subito andò via da lui la lebbra…”. Con un tocco si guarisce dentro e il veleno dello stigma perde la sua forza omicida. Non serve molto, basta un tocco.
Con un tocco, oggi è Eden.

Bauleni 24 HRS

Bauleni 24 Hrs è stato un progetto pilota, basato sul coinvolgimento dei ragazzi del Compound di Bauleni. All’inizio voleva essere solo un documentario, ma non rientrava nello stile di in&out of the ghetto, allora abbiamo pensato di girare un cortometraggio in cui i ragazzi potessero essere loro stessi a raccontare la vita del compound. Si è scelto un giro d’orologio, 24 ore. Il film racconta ciò che può realmente capitare nel quotidiano di qualsiasi ragazzo o ragazza. Ne è emersa una fotografia spiazzante di Bauleni; pur avendo evidenziato i problemi con cui fare i conti ogni giorno, non si farà certo fatica a notare la bellezza e l’energia che abita il compound. Qui, nel ghetto c’è molta bellezza e nonostante tutto non muore. Bauleni 24 Hrs rispecchia ciò in cui crediamo, ovvero il rispetto della dignità delle persone. Non vedrete bambini con le mosche in faccia, niente pancioni da denutrizione. No!  E’ ora di concentraci sul bello che c’è, perché come diceva Dostoevsky: “LA BELLEZZA SALVERA’ IL MONDO”. Buona visione!

 

Ci sono storie che si srotolano in un’ordinarietà distante, lontano da ciò che è conosciuto. Storie scritte in matita, da raccontare a bassa voce, perché non hanno nulla di straordinario. Storie di periferie, di ghetti, di quartieri ai margini delle grandi città e della vita raccontata da tv e giornali. Storie di due giovani come tanti che tentano di aggrapparsi ai propri sogni per non scivolare nell’oblio, dove la memoria non entra. Due vite, due piccoli traguardi da raggiungere, inventando il quotidiano per farcela e per realizzare i propri sogni: per Chilesce un lavoro, per Musonda una ragazza. Bauleni 24 hours è un viaggio tra le sfide del compound di Bauleni, alla periferia di Lusaka, capitale dello Zambia. Un viaggio tra l’acqua che non c’e’ e l’immondizia che avanza, tra la droga l’alcool e la mancanza di un lavoro che piegano gli uomini. Tra prostituzione e microcriminalità che abitano la notte percorsa dalla polizia e dal coprifuoco, “shishita”. Tuttavia saranno anche 24 ore tra la bellezza della vita della gente, delle loro speranze e dell’energia che vibra in ogni angolo di Bauleni.

24 ore di storie di vita vera.

 

IL NATALE DI BEPPE, LO STRANIERO!

Natale 2012

Bauleni, Lusaka

 

 

Donne! Ma quanto doveva essere innamorato Giuseppe di Maria?!  Nella vita di quel falegname, a sua insaputa, stava succedendo qualcosa di così importante tanto quanto compromettente.

Chissà che sogni avevi  Giuseppe? Forse volevi avere tre o quattro figli a cui insegnare il tuo amore artigiano. Forse, avresti voluto andartene da Nazareth e dare a Maria una bella casa e magari anche una domestica che potesse aiutarla nelle faccende di casa. Avevi sognato il meglio per lei. Avresti desiderato vedere la tua piccola bottega diventare grande, e da vecchio, sederti sulla tua sedia di legno bruno e pelle di capra intrecciata, e goderti lo spettacolo dei figli levigare con passione che ti somiglia legni profumati di vita, con la tua discendenza accovacciata sulle ginocchia. Sogni di un uomo che ama una donna, ed è pronto a tutto per lei, anche a dare la vita, ma non ti saresti mai immaginato di dover passare il limite del lecito, del logico e del comprensibile, per stare con lei eh Giusè?! Sì, perché credo tu abbia agito solo per amore della tua Miriam. L’amavi talmente tanto che, decidesti di rimandarla a casa in segreto per  proteggerla.  Nelle poche ore di sonno delle tue notti tribolate, sognavi di lei, sino a quando Dio ti carezzò, proprio come fa un amico nel momento del bisogno davanti ad un bicchiere di vino rosso. Il vino scalda il cuore come un amico, ma l’amico ti lascia sobrio. Ti ha convinto; Giuseppe, riprenditi le tue notti, lascia le stelle vegliare per te, loro sanno come brillare sui tuoi sogni. Respira il ricordo del suo profumo di cui senti una lacerante nostalgia. Tu non puoi fare a meno di lei e io non posso fare a meno di voi. Giuseppe, amati, e per farlo hai un solo modo: amala! Non aver paura di versare il tuo amore perché lei è la ragione del tuo vivere e sudare su legni ancora senza forma. Maria è ciò che ti completa o immigrato di Betlemme, è ciò che da senso al tuo levigare, all’odore dei legni verdi accatastati al sole per seccare. È il senso dei trucioli che cadono dal tuo tavolo da lavoro ad ogni tuo gesto e si poggiano per terra delicati come fiocchi di neve. È il senso della polvere che respiri tutto il giorno, e a sera la gola arida brucia come stessi inghiottendo sabbia. Maria è il senso della segatura, che folate di vento fanno volare nell’aria finendoti negli occhi, pungendo da far lacrimare. Quante volte te le ha tolte dagli occhi prendendoti in giro amorevolmente dicendo: “guarda Beppe stai piangendo!”

E tu la lasciavi fare arrossendo e replicando: “no, io sono un uomo, e un uomo non piange mai, capito?! È colpa della segatura!”, e i polmoni ti si riempivano di ossigeno dalla gioia sino a far male. È lei il tuo ossigeno. Giuseppe, figlio della tua cultura, solo tu sai quanto hai pianto in segreto per lei, per Maria che è il senso delle tue mani ruvide e più volte ferite, che contrastano con la sua pelle liscia più dell’olio con cui te le cospargi per rendere le tue carezze meno graffianti. Lei è il tuo olio. Lei è ciò che sei e ciò che non sarai mai, e in questo segreto consegni il tuo amore. Sai, non ho mai pensato al tuo Natale Giuseppe. È un giorno felice per tutti, o meglio, più o meno la teoria dovrebbe essere questa, ma noi  uomini e donne siamo capaci di allontanare la pratica dalla teoria, nel bene e nel male. Quella notte tu, Giuseppe, che cosa hai provato? Nasceva qualcuno che non conoscevi, tra dubbi, rabbia, confusione.

Mi chiedo se, nei tuoi momenti di solitudine, hai mai preso a pugni quella vecchia asse mai diventata tavolo, appesa alla parete appena fuori dalla tua bottega. La tradizione ti vuole mite e silente, ma sai, sono uomo anch’io come lo sei tu e non la bevo! Non mi stupisce sapere che qualche secondo d’ira, abbiano aggiunto ferite nuove a mani già generose di cicatrici. Ti sarai chiesto che cosa avevi da spartire con quella notte, in quella situazione di esclusione, nella terra che ha regalato anche il tuo natale. Ti sentivi straniero a casa tua e forse, sentivi che l’unica cosa che ti accomunava al figlio che stava nascendo era la terra di Betlemme e l’amore per una donna. Anche quello avresti dovuto condividere, e come spesso accade, accettare di diventare il numero due e metterti un’altra volta in fila guardando l’ennesima schiena.

Tu straniero a un figlio che non ti somiglia ancora. Lo farà più tardi, ma a modo suo, in un modo talmente originale che, a fatica ti ci ritroverai… ma tu c’entri, eccome! Tu, seduto su pietre fredde allo scoppiettio di un fuoco troppo distante per scaldare il tuo amore gravido.

Straniero anche a quella gravidanza. Parlo da uomo Giuseppe, e penso in minima parte di capire la forza della tempesta di emozioni e sentimenti che ti calpestavano il cuore.

Che forza hai avuto!

È bastata una notte diversa da tutte la altre notti per cambiare per sempre la prospettiva della tua vita. Hai rinunciato al tuo sogno di uomo per dare a tutti la possibilità di sognare.

Che uomo! Per loro ti sei messo in viaggio come un migrante alla ricerca della vita. Ce l’hai fatta Beppe, li hai riportati a Nazareth, ma solo tu sai quanti sono rimasti per strada.

Ti sei mai sentito a casa Giuseppe? Dimmi la verità. Penso che, anche nel tuo ultimo giorno, sdraiato sulla stuoia nella casa di Nazareth, hai avuto negli occhi il fuoco tremante di quella notte straniera che ha cambiato per sempre la storia. Tu hai cambiato la storia Giuseppe, te lo saresti mai immaginato? E così, te ne sei andato lasciandoli ancora giovani. Di cosa sei morto non lo so, credo che il tuo cuore non abbia retto alla forza del tuo amore, e così anche lui ha dovuto inchinarsi davanti a tanto, come hanno fatto davanti a te l‘ultimo giorno, tua moglie e tuo figlio, per sentire per l’ultima volta la tua voce. La tua umanità ha fatto inginocchiare Dio. Tuo figlio sai, l’ha rifatto ancora nelle sue ultime notti, e mentre inginocchiato davanti all’uomo gli lavava i piedi, sono sicuro che ha visto ancora una volta i tuoi occhi.  Ha visto te, suo padre, e ha visto il Padre.

Tu hai vissuto il primo Natale, e so che oggi non lo riconosci più.

Sei diventato straniero anche ad un evento che ti appartiene. Cos’è rimasto di quel giorno Giuseppe? Possiamo ancora chiamarlo Natale? Va beh, io azzardo e ci provo ugualmente a farti gli auguri chiamandolo ancora per nome…

ci credo ancora, grazie a te!

Buon Natale Giusè, amico straniero di artigiana passione.

Buon Natale a te, che ci ricordi la bellezza

di essere pienamente Umani.

BUONA FESTA

DI COSE ESSENZIALI

E SEMPLICI…

INSOMMA, BUON NATALE!

 

Diego