Tante volte mi sono chiesto cosa spinge alcuni ad abbandonare tutto ciò che possiedono per sposare cause che apparentemente non gli appartengono. Cosa li fa rischiare la vita, cosa li porta a spendersi per gli altri? Bene…. forse in Uganda Qualcuno mi ha dato una risposta. Comincia tutto la notte del 18 luglio scorso quando i miei piedi toccano per la seconda volta la terra ugandese bagnata da una pioggia tiepida. Una manciata di ore e mi trovo dall’altra parte del mondo, catapultato in una realtà a noi sconosciuta o tenuta nascosta. Non ho neanche il tempo di pensare e di sistemarmi che subito devo rimettermi in viaggio sotto le stelle; destinazione Matany Karamoja. Una volta arrivato, il sole stava già tramontando e per un attimo ho sentito un senso di famigliarità, ma tutto questo era destinato a durare poco, pochissimo. Sono bastati pochi incontri per capire che la situazione oggi in Karamoja e tutt’altro che famigliare e amichevole. Oltre alle continue razzie che impegnano le notti dei guerrieri Karimojong armati di kalashnikov ,c’è , ad aggravare la situazione, una stagione delle piogge poco clemente che non ha regalato a questa terra la giusta quantità d’acqua, così si cominciano a vedere le prime conseguenze della fame, soprattutto nei bambini. Andando a visitare i villaggi non è raro sentire il lamento delle anziane che guardandoti ti con occhi asciutti ed espressivi ti dicono: AKORRO’, cioè ho fame! La realtà è che, quando sei in una regione come questa ti senti dimenticato da tutti, dal resto del mondo. Anche il governo ugandese sembra non interessarsene, tanto che le leggi del paese qui sembrano avere meno valenza. Fortunatamente Dio non ha abbandonato questa terra, e lo si può avvertire grazie alla presenza “folle “ di uomini e donne di Dio che instancabilmente perseverano nella loro opera. Perché sta gente resta qui? Come fanno a restare? Dove vedono i risultati che li incoraggiano e gli donano sparanza? Questi missionari hanno preso alla lettera le parole dette più di cento anni fa dal Comboni: “Io posso morire ma la mia opera non morirà”. Con la stessa convinzione questi “pazzi” perseverano sapendo che non saranno loro a vedere i risultati, ma sentono forte la responsabilità di portare avanti un progetto che molti, prima di loro, hanno abbracciato e passato come un testimone. Questa logica è spiazzante ma riprende perfettamente il brano del seminatore scritto nel Vangelo. Davanti alla mia stanza c’è un ospedale, è dignitoso e molto operativo,ed è un gioiello in mezzo al niente; dicono sia nato tutto da una suora che visitava i pazienti sotto un albero. Mah….sotto un albero?! E io in tutto questo cosa c’entro? Io non sono matto e non lo voglio diventare! Anche se cerco di crearmi delle barriere, delle difese non trovo risultati soddisfacenti, questa realtà mi trafigge e penetra proprio dove non vorrei farla arrivare mai. Non posso piangermi addosso, e dopo due settimane spese a Matany è tempo di partire, prossima meta Gulu, Acholi-Land. Qui la realtà ha lo stesso grado di drammaticità del Karamoja ma sotto vesti più appariscenti. Questo popolo è stremato da ben 19 anni da una guerra assurda tra ribelli della LRA (Lord Resistance Army) e i soldati governativi, ma si sa, quando due elefanti litigano è l’erba a rimanere schiacciata! Girando per la città non è difficile vedere sui corpi della gente i segni di una violenza gratuita e imperdonabile; forse la via della pace passa proprio attraverso il perdono. Vedo bambini senza gambe, senza braccia. Gente sfigurata in viso dalle torture e dalle mutilazioni crudeli, menti ormai distrutte dalla troppa violenza subita e commessa. Avrei voglia di dire a tutti quello che questa gente sta vivendo mentre il mondo tace. Mi hanno pregato di raccontare alla mia gente che cosa sta succedendo in questa terra…ma come posso fare?! Mi sento impotente e frastornato, l’unico mio appiglio è la preghiera… è l’unica cosa che posso fare per continuare a restare in questa città. Pian piano mi rendo conto, comincio a capire che senza Dio qui non si può stare. Questa mia scoperta si conferma mentre sfilano sotto i miei occhi immagini di “CAMPI” dove la gente è costretta a vivere ammassata in condizioni di vita insostenibili. Sono ormai circa 1.700.000 i profughi nella propria terra. Non si può restare qui senza Dio quando ogni sera 40.000 bambini lasciano le proprie case per passare la notte sotto le verande della città, nelle missioni o nel cortile dell’ospedale. Quando vedo queste cose vorrei gridare: Dio dove sei!!! Poi mi accorgo di averti affianco; mi accorgo perché ancora ho la forza di restare. Anche qui ci sono molte realtà importanti,come l’orfanotrofio St. Jude o come il famoso St.Mary hospital di Lacor e tante altre ancora. Qualcuno mi ha detto che tutto è cominciato sotto un albero. Qui in Africa sembra tutto cominciare sotto un albero, con pochi mezzi ma con molta umiltà. Alla fine di questo viaggio mi sento strano, mi sembra di sfiorare la ragione per la quale tanta gente si spende sino all’ultima goccia di sangue in questi posti. Per un attimo riesco ad assaporare quella radicalità che prima mi appariva pura follia. Non mi chiedo più cosa c’entro io in questo posto, ma come posso entrarci! Ho paura di essere diventato pazzo anch’io o forse sto solamente iniziando a guarire da tutto il mio egoismo, dalla mia arroganza,dalla mia cecità. Sono tornato dall’Uganda ma il mio cammino non è finito. Ho ancora sotto i piedi la terra rossa dei sentieri africani e il cuore pieno di emozioni, sorrisi, speranze e nuove sfide. Voglio continuare a camminare fino a che Dio mi darà la forza di farlo. Voglio trovare il coraggio di non chiudermi nel mio piccolo mondo ma di vivere in pienezza gettando il cuore oltre le fiamme come mi è stato insegnato in questo mio pellegrinaggio. Voglio provarci perché so che è possibile! Dio ha messo ad ognuno un albero sulla propria strada sotto il quale possono nascere le Sue meraviglie. Qualcuno mi ha detto che c’è un albero anche per noi!