Appeso ai jeans

Era un sabato pomeriggio, quello prima di Natale. Io e Domenico, il mio compagno di cammino qui a Padova, ci preparavamo ad entrare nel carcere circondariale come ogni sabato pomeriggio. Il freddo pungeva e l’attesa davanti alle porte blindate dell’ingresso sembrava più lunga del solito. Il lampeggiante giallo segnalava l’apertura delle spesse porte di metallo verde e attraverso le sbarre, s’intravedevano decine di persone nell’atrio stretto nell’attesa di poter parlare con i propri cari. Alcuni avevano in mano delle borse di plastica e paccottiglie varie, forse erano i regali di Natale. La piccola sala era riempita dalle voci autoritarie degli agenti e dallo schiamazzare dei bambini. Era il momento dei controlli e delle perquisizioni. Il contrasto era veramente forte. Vedere dei bimbi che corrono e giocano a nascondino dietro la gonna della mamma, tra le borse e le gambe degli agenti ti costringe a pensare che i veri matti sono i grandi, che rovinano tutto quello che di buono esiste, che non sanno essere più semplici. La serietà degli agenti era annullata dal sorriso sereno dei bimbi che ignoravano quanto sarebbe successo da lì a qualche minuto in quel carcere. A dire il vero non ce lo saremmo mai immaginato neanche noi “gradi “seppur completamente coscienti di essere in un luogo di speranze soffocate. Gli agenti ci chiesero i documenti e ci rilasciarono un cartellino con un numero. Eccoci entrati nel luogo dove vengono annullate tutte le identità. Da quel corridoio in poi non siamo più Diego e Domenico ma due numeri. Io ero un undici quel sabato. Ci separammo da tutto il resto della gente che, chiassosa e scortata, si dirigeva verso la sala dei colloqui mentre noi ci portavamo verso le altre porte blindate che separano le celle dal resto della struttura. Ancora il lampeggiante giallo ci segnalava l’apertura automatica delle porte con le sbarre davanti ai vetri blindati. Altro controllo. L’agente prima guarda il cartellino con il numero attaccato al giubbotto e poi ci guarda in faccia chiedendoci, da regolamento, il nostro ruolo all’interno del carcere. Dopo essersi accertato dalla sua postazione super blindata chi fossimo, azionò il dispositivo per l’apertura della porta e ancora una volta il lampeggiante giallo cominciò ad accendersi a spegnersi al ritmo del ronzio metallico del motore che permette alle porte si schiudersi lentamente. Subito incontrammo un ragazzo detenuto che aspettava il permesso di varcare quella soglia per poter riabbracciare una faccia amica. Ci salutò con il triste sorriso di chi sa che è meglio per tutti fingere un sorriso e dimenticarsi dell’umiliazione di sentirsi una bestia da zoo agli occhi di chi entra saltuariamente in carcere. Percorremmo il corridoio color grigio con il pavimento a piccole piastrelle rosso mattone. Davanti a noi l’inaccessibile porta verde dell’infermeria. Dopo una curva forzata, eccoci nuovamente davanti ad un’altra porta.Gli agenti da lontano, nella classica cabina blindata, ci videro e dopo qualche secondo, ancora il lampeggiare giallo e il ronzio della porta, aperta quel tanto che basta per farci passare. Gli occhi degli agenti ci guardano all’altezza del bavero sul mio nuovo nome, l’undici. Un cenno per chiederci di avvicinarci alla sua postazione e con una voce quasi annullata dallo spessore dei vetri antiproiettili ci disse che Don Marco, il cappellano del carcere non era ancora arrivato, così decidemmo di prendere le chiavi del suo ufficio e di cominciare i colloqui con i ragazzi. Dopo un pò d’esitazione ci diede le chiavi.  Alcuni ragazzi detenuti erano “all’aria”, come si dice qui, cioè nella loro ora d’aria all’interno del campo da calcio. Nessuno giocava. Faceva freddo e un pallido sole rischiarava leggermente il marciapiede grigio cemento dell’atrio. Prendemmo l’ascensore color verde e ruggine, senza vetri e con delle sbarre segnare da scritte e simboli più o meno comprensibili. E’ una sorta di montacarichi blindato squallido e mal odorante. Mentre salivamo sentimmo la voce di don Marco in prima sezione, si era fermato lì per incontrare un ragazzo. Arrivati al secondo e ultimo piano aspettammo Marco davanti alle sbarre che davano sulla seconda sezione e una volta arrivati cercammo di attirare l’attenzione dell’agente affinché venisse ad aprirci con le grandi chiavi giallo ottone. Era tutto molto ordinario, la prassi non cambia di una virgola ed è monotono attendere che si aprano i vari ingressi. Mi ricordo che quel giorno ero assonnato e, tra uno sbadiglio e l’altro nell’attesa di entrare, mi appoggiai alle grate, vicino al telefono ad esclusivo uso dei detenuti. Non sapevamo che da lì a qualche secondo si sarebbe scatenato l’inferno. Immersi nel nostro silenzio aspettavamo ascoltando i suoni della “vita” del carcere. Un agente ci aprì la pesante porta d’acciaio e ci salutò con aria tanto formale quanto anonima. Improvvisamente si sentì una voce di un ragazzo detenuto che chiamava un agente. Aveva un accento africano ed era come se stesse chiamando ad alta voce ma a denti stretti, quasi sotto sforzo. La voce ripeteva forte: agente..! Agente, presto agente!!! E la voce riecheggiava per tutto il corridoio dove si affacciavano tutte le celle. Ci vollero alcuni secondi, prima che un agente arrivò. Lo vidi passare correndo con aria preoccupata. Ad ogni passo si sentiva il tintinnio delle chiavi legate alla cintura e gli stivali rendevano ancora più pesante il rumore dei passi che riecheggiavano per tutto lo stabile. Io, Domenico e don Marco restammo immobili sul posto con gli occhi fissi sul volto dell’agente che si trovava oramai davanti alla cella da cui provenivano sempre più disperatamente le urla. L’agente era poco più che un ragazzino, più giovane di me. Quando guardò intimorito tra le sbarre della cella, la sua espressione cambiò notevolmente, il volto divento serio e si poteva vedere chiaramente l’agitazione nei suoi movimenti. Cominciò ad urlare e chiamare i rinforzi: collega, collega, dai l’allarme, dai l’allarme!!! Cercava di trovare le chiavi e infilarle nella serratura ma l’agitazione gli faceva tremare le mani e rendeva tutto più difficoltoso. Noi eravamo storditi davanti al corridoio. In un attimo arrivarono sei o sette agenti di corsa gridando ognuno frasi diverse: spostatevi, dai l’allarme, dai l’allarme, avvisa gli altri, chiama l’ambulanza, avvisa l’infermeria. La porta della cella in fondo alla seconda sezione venne finalmente aperta, ma ormai dentro al carcere si era scatenato l’inferno. Ad un certo punto un agente gridando fortissimo disse: metti al sicuro i civili…fate sgombrare i civili, fuori fuori!!! Eravamo pietrificati, non capivo cosa stesse succedendo, mi aspettavo di vedere qualsiasi cosa da un momento all’altro. Ci invitarono a sgombrare l’area ma il carcere è fatto apposta per non scappare e non sapevamo dove andare. Un agente ci spostò di un passo, davanti all’ascensore e socchiuse la pesante porta blindata. Quasi tutti gli agenti erano entrati nella cella dalla quale provenivano ancora le grida. Si aggiunsero anche le loro. Noi eravamo a circa una diecina metri da quella maledetta cella. Il tempo sembrava non passare. Nessuno di noi parlava. I nostri sguardi restavano fissi verso la fine del corridoio distogliendoli solo per guardarci in faccia, cercando delle risposte che nessuno aveva. L’agitazione aumentò quando gli agenti uscirono dalla cella, tutti urlavano. Un paio di agenti ci spinsero in un angolo, sotto le scale d’emergenza. Qualcuno si scagliò contro l’ascensore per premere il pulsante mentre i passi striscianti degli agenti si facevano sempre più vicini. Io non vedevo più nulla. Ero pressato contro le sbarre della porta verde di ferro completamente spalancata che chiudeva tutti in una sorta di gabbia grande quanto una cabina del telefono. L’ascensore non arrivava e fu allora che mi resi conto di quanto era successo. Vidi il corpo di un ragazzo, a torso nudo. Indossava solo un paio di pantaloni. Quattro agenti lo trascinavano a peso morto. Lo reggevano tenendolo per le estremità delle braccia e delle gambe mentre la testa ciondolava ad ogni spostamento. Furono lunghi secondi di attesa. Le grida degli agenti e di alcuni detenuti che aiutavano a portare il ragazzo si fecero assordanti. C’e chi inveiva contro l’ascensore, chi gridava: è morto, forse respira I compagni di cella del ragazzo restarono davanti al corridoio con gli occhi lucidi con le mani tra i capelli. I nostri occhi non si staccavano da Mihai, questo era il nome di quel ragazzo. Sul suo collo si vedeva chiaramente una spessa striscia violacea. Mihai, un ragazzo ventiseienne rumeno, da dieci giorni in carcere, si era appena impiccato. Era già morto quando lo trascinarono sull’ascensore. Aveva il collo spezzato ma ci si illudeva di vederlo risalire le scale con le proprie gambe. Era un sabato pomeriggio come tanti, anzi forse un po speciale perché la gente fuori affollava le strade e i negozi tra musiche di Natale e lucine colorate. Mentre fuori si compravano i regali di Natale un ragazzo di ventisei anni si impiccava sulle grate del bagno con un paio di Jeans legati al collo. Questa è la disperazione di un giovane che vede la sua vita finita per un tragico sbaglio. Nessuno parlò di quel suicidio, forse solo un piccolo ricordo su un quotidiano cittadino e niente più. Mihai si trovava in carcere per una combinazione assurda di avvenimenti. Una sera, lui ed un suo amico conobbero un uomo. Dopo un pò di tempo li invitò a casa sua e cominciò a molestarli. I ragazzi si ribellarono e lo malmenarono e l’uomo entrò in coma. Mihai fu subito arrestato.Qualcuno disse a Mihai che l’uomo era in fin di vita e lui rischiava trent’anni per omicidio. Nessuno però si preoccupò di avvisarlo che il signore malmenato, dopo poche ore era uscito dal coma e da lì a poco sarebbe tornato a casa sua. Mihai non era un delinquente, lo stesso responsabile del circondariale, prima che ce ne andassimo dal carcere ci disse con voce rassegnata: questo ragazzo non sarebbe mai entrato in carcere se non fosse successo quello che purtroppo è successo.