Attendere

Eccomi di nuovo ad aspettare. Un’ attesa che è durata 3 anni, ma alla fine è arrivata. Torno nella terra che mi ha battezzato con il nomignolo con firmo solitamente gli articoli che scrivo: Gigo. Chi mi ha battezzato con questo nome? Sono stati dei bambini di una regione del nord-est dell’Uganda che si chiama Karamoja. Ci sono stato due volte, nel 2003 e nel 2005. I miei insegnanti di Karimojong (lingua locale) sono stati i bambini. Cercavano di chiamarmi con il mio nome ma non riuscivano. Mi chiamavano inizialmente Digo. Questo nomignolo poi ha subito una metamorfosi col tempo, ed è diventato Gigo. Da allora molti, anche qui in Italia, mi chiamano così. Ecco perché questo nome mi è caro! Oggi sono in attesa. Non manca molto. Il 2 luglio partirò per l’Uganda. E’ la mia esperienza di tirocinio con l’Univesità di Padova. Mi fermerò nel nord del paese, nella terra degli Acholi (etnia) e più precisamente a Gulu per tre mesi circa. Vi parlo di una terra stremata da più di 20 anni di conflitto tra ribelli della Lord Resistance Army (Lra) e l’esercito governativo. Questa guerra civile ha causato quasi 2 milioni di sfollati rinchiusi in campi profughi al limite della sopravvivenza, migliaia di morti e altrettanti bambini rapiti con lo scopo di trasformarli in bambini soldato. Quello che colpisce maggiormente l’attenzione è la problematica legata all’infanzia. C’è una moltitudine di bambini che vaga per i mercati e le strade della città. Alcuni di essi non sono “soltanto” street children ( bambini di strada) o “night commuters” (bambini che si spostano dal loro villaggio per passare la notte in luoghi più “sicuri” come il centro della città, cortili di ospedali ecc per non essere rapiti dai ribelli) ma sono anche reduci del reclutamento nell’esercito di ribelli (Lra) chiamati Olum, che nella lingua Acholi significa erba, proprio per la loro capacità di nascondersi e vivere nel bush o boscaglia. Moltissimi bambini vivono nei campi profughi,( IDP: Internal Dispalced Persons- persone spostate internamente) completamente sradicati dal proprio contesto famigliare e culturale. I campi versano in una condizione di degrado tale da provocare un alto tasso di epidemie, disagio, violenza, suicidi e ogni sorta di violazione di diritti umani, soprattutto ai danni dei bambini. Quello dei campi profughi è un terreno molto problematico che lancia una sfida alla società, una sfida che non può non essere accolta dall’educazione e da chi crede nella possibilità di riscatto per tutti, nessuno escluso. Sarà proprio nel contesto dei campi IDP che mi inserirò. Lo voglio fare in punta di piedi o, riprendendo una frase biblica lo farò togliendomi i sandali, perché quella che calpesterò è terra sacra. Tre mesi sono pochi e ne sono consapevole. La mia esperienza, a livello accademico, può essere considerata una ricerca sul campo, ma personalmente la chiamerei solo: “tentativo di condividere un tratto di strada insieme a un popolo che soffre”. Niente promesse, niente illusioni, niente atteggiamenti da babbo natale o da salvatore del mondo, ma solo la voglia di incontrare e mettersi in ascolto. Un solo atteggiamento mi è richiesto; lo stupore. Ecco, se c’è un termine che sento di assumere per definire l’approccio che intendo abbracciare e proprio quello di SERENDIPITY. La parola Serendipità deriva da Serendip, l’antico nome persiano per Sri Lanka. Il termine è stato inventato da uno scrittore inglese nel 1754 che lo usò in una lettera scritta a un suo amico che viveva a Firenze. Serendipità  e una parola poco usata nella lingua italiana. Lo scrittore fu ispirato dalla lettura della fiaba persiana “Tre principi di Serendippo” di Cristoforo Armeno, nel cui racconto i tre protagonisti trovano sul loro cammino una serie di indizi, che li salvano in più di un’occasione. La storia descrive le scoperte dei tre principi come intuizioni dovute sì al caso, ma anche allo spirito acuto e alla loro capacità di osservazione. Serendipità è dunque – filosoficamente – lo scoprire una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. Ma il termine non indica solo fortuna: per cogliere l’indizio che porterà alla scoperta occorre essere aperti alla ricerca e attenti a riconoscere il valore di esperienze che non corrispondono alle originarie aspettative. Oltre ad essere spesso indicata come elemento essenziale nell’avanzamento della ricerca scientifica (spesso scoperte importanti avvengono mentre si stava ricercando altro), la serendipità può essere vista anche come atteggiamento, e – come tale – viene praticata consapevolmente più spesso di quanto non si creda. Ad esempio tutte le volte che si smette di arrovellarsi nel ricordare un nome, nella speranza che l’informazione emerga da sé dalla memoria, in realtà ci si sta affidando alla serendipità. C’è una famosa frase spiritosa per descrivere la serendipità detta da un ricercatore biomedico americano:  «la serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino». Nel mio viaggiare sarò guidato, accompagnato e “educato” da una NGO locale, il Comboni Samaritan, che da anni si occupa delle problematiche del popolo acholi del distretto di Gulu. I loro interventi si snodano in molteplici aree quali: assistenza per persone affette da Aids, ricostruzione di villaggi distrutti dalla guerriglia, sostegno a distanza per permettere ai bambini di accedere all’istruzione, attività dedite alla valorizzazione delle tradizioni e della cultura acholi, (canti e balli tradizionali ecc). Ora devo fare silenzio. Devo saper attendere e prepararmi all’incontro. Senza promettere nulla, spero di riuscire a scrivere e condividere con voi un po’ di vita, di volti, di incontri e di speranze della terra ugandese.