….ancora una volta si passa da Lampedusa

Sono le 20:30 circa di giovedì sera e mi trovo in portineria perché era il mio turno, quando ad un certo punto si presenta alla porta una donna africana con un bambino per mano. L’aveva accompagnata suor Lia che lavora alle cucine popolari di Padova, dicendo che era un’emergenza e che non sapevano dove passare la notte. Nemmeno il tempo di capire e la suora salì in macchina  e sparì. La donna e il bambino erano appena arrivati a Padova con il treno dal sud Italia e non avevano la più pallida idea di dove si trovassero. Si chiama Stefany ,dice di venire di essere sudafricana e non parla una parola di italiano. Aveva con se due borse di plastica e un borsone da viaggio, questo è tutto quello lei e il suo bambino di tre anni possiedono. Dopo averle dato una stanza e spiegato due o tre cose sull’uso della doccia ecc, mi ha detto qualcosa del suo viaggio, ma in modo frettoloso e confuso. Era stanca e smarrita anche perchè non sapeva nemmeno dove sarebbe stata portata il giorno dopo. Aveva con se un biglietto di carta scritto sui due lati. Da una parte c’era il nostro indirizzo e dall’altra quello degli uffici dell’assessorato ai servizi sociali del comune di Padova. Aveva due indirizzi utili, dati da qualcuno con un po di superficialità, non solo perché non parlava italiano e non sapeva come muoversi, ma anche perché, parlando un po con lei, mi ha detto di non saper né leggere né scrivere. Allora alla mattina verso le 8:30 siamo andati insieme ali uffici del comune ma prima abbiamo chiamato l’assistente sociale per prendere una sorta di appuntamento. Penso che il fatto di aver detto che sono dei missionari comboniani ci abbia agevolato molto. L’assistente ci ha dato l’appuntamento per le 9:30 e appena siamo entrati ho subito sentito chiamare il mio nonme e siamo stati ricevuti. Durante il tragitto Stefany mi ha raccontato la sua storia e poiché era presto ci siamo seduti sui gradini davanti ad una chiesa e con calma si è confidata e mi ha raccontato la sua tragedia. Stefany è una ragazza di 24 anni, nata in Sudafrica ma poiché ha perso subito i genitori è stata data ad una vecchia signora che l’ha portata in Nigeria. Con lei ha vissuto per molto tempo e si è presa cura della casa e dei “fratellini” che erano i figli e i nipoti della nuova mamma. Per questo motivo Stefany non ha potuto andare a  scuola come tutti glia altri bambini. Poi ha incontrato un uomo e si è sposata. Suo marito era un commerciante di vestiti. Viaggiava spesso dall’Africa all’Europa e così si assicurava i soldi per mantenere la famiglia, ma la serenità durò poco. Infatti quando Stefany era in cinta di sette mesi perse il marito in un incidente stradale. La famiglia del marito voleva prendersi cura di lei e del bambino che stava per nascere e di conseguenza doveva essere data sposa ad un membro della famiglia. La proposta le arrivò da una uomo, forse un lontano cugino del marito, ma lei rifiutò dicendo che il bambino era suo e avrebbe pensato lei a crescerlo senza doversi sposare con un uomo che neanche conosceva. Queste tradizioni sono molto radicate e difficilmente modificabili. La famiglia allargata non accettò questo suo rifiuto e cominciarono a renderle la vita impossibile. Pretendevano il bambino perché secondo le leggi del villaggio apparteneva alla famiglia del padre. Dovette lottare con le unghie per difendere la sua decisione e passò attraverso minacce e violenze fisiche. La cosa era degenerata e mi ha raccontato di essere stata picchiata e aggredita con un coltello. Tutto quello che stava raccontando non era invenzione. Mentre parlava delle violenze subite spostò la scollatura della camicetta lasciando intravedere le cicatrici delle coltellate che portava sulla schiena. Erano tante! Allora decise di scappare in Libia con l’idea di raggiungere l’Italia . In Libia partorì suo figlio Peter. Mi disse che la vita laggiù non era facile ma era ospitata da altri nigeriani e quindi stava relativamente bene, ma il progetto di parrire per l’ Italia non l’aveva abbandonato. Doveva solo aspettare che il bimbo crescesse quel tanto da poter affrontare il viaggio in mare. Aspettò tre anni e poi decise di partire, ed è incredibile la fermezza e la convinzione della sua scelta. Mi disse: “in Nigeria  avrebbero ammazzato me e il mio bambino, in Libia saremmo morti di fame… morire per morire tanto vale tentare”. Cinque giorni e cinque notti in mezzo al mar Mediterraneo con un bambino di tre anni. Era una barca piccola, c’erano a bordo solo 21 persone, marocchini, tunisini, alcuni del Ghana e lei e il suo bambino dalla Nigeria. Mi ha detto che una notte hanno attraversato una tempesta. Tutti gridavano ed erano sbattuti da una parte all’altra della carretta del mare su cui viaggiavano. Mi ha detto che si ricorda di aver pregato tanto. Nessuno di loro morì e dopo due giorni raggiunsero Lampedusa. Solo un uomo aveva perso coscienza da un giorno ma fu subito soccorso. Poi non ha più saputo nulla di lui. Passò da un centro di permanenza all’altro, dalla Sicilia alla Puglia a Lecce e a Bari dove, dopo aver ascoltato la sua storia, gli venne rilasciato un permesso di soggiorno per “motivi umanitari” con scadenza settembre 2007. A quel punto era libera di andare, ma andare dove?! I servizi sociali della Puglia non erano in grado di trovarle una sistemazione, né una casa né tanto meno un lavoro. Allora si trasferì a Napoli dove trovò una signora nigeriana che aveva  già tre bambini da crescere. Tra persone in difficoltà c’è solidarietà e là trovò ospitalità per due mesi ma non c’era lavoro e non sapeva come fare a pagare l’affitto e il cibo. La situazione era diventata insostenibile per la signora che la ospitava e così, su consiglio di altri suoi connazionali decide di venire al nord. Così arrivò a Padova alle 7:30 di giovedì 7 giugno 2007 e dopo un ora si trovava davanti a me con il suo bambino per mano e le sue due borse di plastica e un borsone da viaggio. In mano aveva un biglietto stropicciato scritto a matita sui due lati. Da una parte il nostro indirizzo, dall’altra quello dell’assessorato ai servizi sociali…ma per quanto poteva saperne Stefany su quel biglietto potevano esserci solo dei segni… L’ho lasciata in comune, dopo aver parlato per mezzora con gli assistenti sociali, dopo aver raccontato la sua storia. Mentre parlavo tenevo in braccio Peter, un bambino che pur avendo solo tre anni aveva già visto molte cose che noi possiamo solo immaginare o vedere nei telegiornali. Gli assistenti si sono subito mobilitati e hanno cominciato a fare un giro di telefonate, inoltrando anche la richiesta per un permesso di soggiorno come rifugiata politica. Verso mezzogiorno l’ho salutata, un bacio a Peter e una stretta di mano a Stefany. Solo poche parole prima che me ne andassi… Thank you bro God bless you!!!   Una cosa mi ha colpito; per andare verso gli uffici del comune bisogna attraversare un ponticello sul Bacchiglione, il canale di Padova e Peter appena vide l’acqua chiamò la mamma dicendo:”mama mama, Lampedusa!